Pontescuro, 1922.

Pontescuro è la nebbia che tutto nasconde, è la malora e la misera, è la semplicità e la stupidità umana.

Pontescuro, terra contadina che ribolle da dentro e un ponte costruito con le pietre e con il sangue di gente chiusa che “ad aprirla moriva”.

Badate bene, questa non è la cronaca di un delitto così come potrebbe sembrare all’apparenza. No, questa è la narrazione dell’animo umano, di quelle anime che qui a Pontescuro tirano a campare, perché quando c’è malora e miseria di vivere non si può parlare.

Tra queste anime c’è Cosimo Casadio, padrone del villaggio, dedito più ai suoi libri mastri che non ai suoi quattro figli: due maschi, entrambi fuggiti da Pontescuro per poi ritrovarsi sui fronti opposti della storia, il terzogenito che riversa la sua rabbia su fogli bianchi e Dafne, la figlia femmina, che a causa della sua sfacciata bellezza, strumento beffardo da lei stessa usato per schernire i poveri contadini del villaggio, finirà con l’essere uccisa da un sottile nastro rosso.

Ci sono Don Andreino e Don Antonio, le vesti sacre di Pontescuro, vesti poco sacre che celano biancherie profane.

C’è Làinfondo che è senza nome ed elemosina vino, che “per essere nato sono nato, cosa vi importa di tutto il resto”.

E c’è Ciaccio, lo scemo del villaggio, arrivato a Pontescuro dalle rive del fiume. Ciaccio, colui che è più facile incolpare dei misfatti e della malignità umana, ma che in realtà si rivela l’essere più sensibile, d’animo buono e nobile e l’unico ad essere veramente libero, perché lui sa che “la sua vita non è un confine, ma una linea aperta”.

A Pontescuro non ci sono solo gli uomini, qui vivono anche gli elementi della natura, alcuni ingredienti essenziali della vita e protagonisti attivi della quotidianità del villaggio.

Il fiume con le sue sponde accoglienti e l’acqua che tutto lava via; la nebbia che, scendendo dalle montagne, tutto avvolge osservando la fine delle cose; la blatta, essere naturale che si stupisce del ribrezzo e dell’impeto assassino che produce nell’uomo, ma che ben sa che i veri pericoli a Pontescuro sono sopra, nella ricerca difettosa di pulizia e ordine; la ghiandaia,  che vede e osserva gli uomini dall’alto sovrastando una terra che è sempre in tumulto e che per tale ragione se ne sta liberamente in aria.

In questo racconto non c’è un finale, o meglio, ognuno ricerca il finale che desidera ritrovare, ciò che si trova è la semplice ma alquanto profonda storia di Pontescuro e delle povere anime che vi abitano.

Se di finale vogliamo parlare, si potrebbe dire che oltre a Pontescuro c’è sempre l’orizzonte e questo la ghiandaia lo sapeva: “tutto ciò che si smarrisce o so vuole dimenticare, le parole scordate, i passi non compiuti, le scelte non fatte, un giorno emergeranno dalla corda dell’orizzonte e prenderanno il posto del sole”.

Questo è il libro che aspettavo da tempo di leggere, uno di quei libri che ti colpiscono non per la storia narrata, bensì per la sua scrittura, a tratti poetica, e per l’utilizzo della parola.

È il racconto e l’indagine dell’animo umano in tutta la sua semplice fragilità.

Un libro che non vedi l’ora di continuare a leggere non per sapere come andrà a finire o per scoprire chi è in realtà l’assassino (sempre che ce ne sia uno), ma per conoscere ed entrare ancora più a fondo nella storia personale e nell’intimità degli abitanti d Pontescuro.

È il racconto per chi ama la parola e per chi avverte il bisogno di sprofondare nei meandri più profondi dell’uomo.

Monica Salvi

Pontescuro è stato scritto da Luca Ragagnin per Miraggi edizioni.