Per una lira è il titolo di una canzone di Lucio Battisti che comincia così: Per una lira io vendo tutti i sogni miei. E poi la voce a strisce di Battisti racconta la storia di qualcuno che a malincuore si distacca da una parte di sé. Ascoltandola, ho sempre pensato a chi scrive. In particolare agli esordienti. Chi, per la prima volta (e spesso per una lira) consegna il proprio destino al mondo. Nell’incertezza e nell’imprecisione, un esordio insegna a scrivere più di un capolavoro (anche quando le due cose coincidono: David Foster Wallace, La scopa del sistema, 1987). Per una lira è uno spazio dove leggendo le nuove voci della narrativa, italiana e straniera, metteremo in luce alcuni aspetti di un romanzo legati al gesto dello scrivere per la prima volta, ovvero alla scoperta della propria voce.
Alessandra Minervini, scrittrice, editor e writing coach. Il suo primo romanzo si intitola Overlove, LiberAria 2016. Il suo sito è alessandraminervini.info. Qui gli articoli pubblicati su exlibris20.
«Mia madre morì alla mia nascita. Mio padre in guerra, quando avevo circa undici anni. Fui allevato da una zia che si dimostrò molto buona con me. Poi morì anche lei e, con l’incoraggiamento di un amico assai colto e intelligente, venni a Vallona per studiare filosofia.» Può davvero, la vita, ridursi a un elenco di eventi che determinano chi siamo in maniera irreversibile e del tutto involontaria? È questa l’incessante, sottesa domanda che spinge il giovane Pintus a lasciare il mare e i “Tetti Rossi” di Oblenz per avventurarsi in una città di estranei, di desideri incerti e fuorvianti, rassicurante nella sua magnanima indifferenza. Il prezzo da pagare sarà la distruzione di tutto quanto c’era prima: affetti, illusioni, ricordi, amicizie, tutto cancellato da una necessità assoluta di autodeterminazione, di riconoscersi tra le pieghe della volontà altrui e le diversioni arbitrarie del Caso.
Pubblicato da Einaudi nel 1975, La vita involontaria si pone nel solco della migliore letteratura mitteleuropea per atmosfere, sensibilità e intenzione. Brianna Carafa rappresenta, attraverso la dissacrante e travagliata esperienza del suo giovane eroe, la perpetua lotta faustiana dell’individuo per essere autentico al di sopra di ogni legame, debolezza e convenzione sociale.
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Lezione n. 23
Il romanzo di formazione
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Ritrovarsi nella cinquina del Premio Strega con il proprio romanzo d’esordio non è, come i più pensano, una possibilità legata ai tempi attuali. È successo anche in passato, nel 1975 alla scrittrice e poetessa Brianna Carafa (scrittrice, poetessa, psicanalista) che si ritrovò in cinquina con La vita involontaria, all’epoca edito Einaudi e oggi di nuovo in libreria grazie a Cliquot Edizioni. Pur essendo una storia a suo agio con il buio, le ombre e le contraddizioni, è scritto con un’eleganza che illumina ogni pagina, come i versi di una poesia inattesa. Nella prima edizione Italo Calvino, ai tempi, aveva scritto del romanzo “È un libro di qualità: qualità narrative perché certo ‘succede qualcosa’ e qualità di scrittura, così chiara e ferma.”
“Pareva gli sfuggisse il nesso fra causa ed effetto, tanto che da adulto fu sempre incline a situare gli eventi in una successione del tutto casuale. (…) Ed era là che aveva inizio la ribellione di Bobi – Dio sa a che cosa e perché – un’insensata, cieca ribellione, qualsiasi nome le avessero poi dato.”
Il protagonista è Paolo Pintus, un ragazzo beffardo e incline all’autodistruzione; un orfano che cresce nella immaginaria città tedesca di Oblenz.
“Una volta, a scuola, il professore di lettere mi disse: “Tu potresti fare molto di più, Pintus. Sei terribilmente svogliato, Ma” aggiunse ironico e lisciandosi la barbetta a punta “in realtà, non saprei cosa potresti fare.”
Così, in cerca di “quel molto di più” si trasferisce a Valona, dove diventa studente di filosofia, incline alla pigrizia, affascinato da una misteriosa costruzione di “Tetti Rossi”, forse un ospedale psichiatrico, forse un rifugio della sua immaginazione. Innamorato follemente di ragazze che follemente lo respingono, non lo amano, ci immerge con la sua voce adunco, come un uncino che incide le pareti e le strade che attraversa, la storia della sua formazione, quel diventare grandi che passa inevitabilmente attraverso la perdita di qualcosa di sé.
“Desideravo mettermi in cammino, un giorno o l’altro, senza alcun bagaglio, e vagare a caso per il mondo, mangiando ciò che capitava e dormendo nei prati e sotto le pensiline delle stazioni. Fare il vagabondo, insomma.”
Il romanzo di formazione ha una gestazione molto avanti nel tempo, risale forse a Goethe e al suo Werther e a Henry Fielding e il suo Tom Jones. Racconta il difficile passaggio dall’adolescenza all’età adulta, ravvivandolo di episodi e moti dell’animo che sembrano fare di tutto per contrastare questa evoluzione, come ostacoli naturali alla crescita dovuta. Ma l’eroe ragazza la svanga e ce la fa. Diventa adulto, per poi accorgersi probabilmente che non era poi così male la condizione precedente.
La storia di questo tipo di romanzo è lunga e non serve adesso riprenderla. Conta invece sapere che la maggior parte degli esordi si concentra con la scoperta del sé, appoggiare questa motivazione narrativa a un genere ben preciso, come il romanzo di formazione, è un espediente onesto e comodo per evitare di imbrogliare il lettore e in un certo senso anche il protagonista.
Raccontare una vita, anche non nostra, deve essere un’esperienza narrativa il più possibile vicina alla finzione letteraria.
Per questo il romanzo della Carafa è prezioso, a cominciare da quel titolo che man mano che si va avanti assomiglia a una elegante beffa: la vita involontaria è forse l’unica che il protagonista anti-eroe è disposto a vivere. E quante volte, leggendo un romanzo, ci siamo detti: le vite che non sono la mia mi assomigliano più della mia.
Riscoprire questa scrittrice è importante per due motivi. Il primo perché la letteratura spesso è un ingiusto gioco delle parti, Brianna Carafa in vita ne è stata ingiustamente esclusa. Secondo motivo, che è pure un consiglio di scrittura, per imparare a guardare il mondo interiore di un personaggio attraverso quello esteriore.
“Ora le strade si erano svuotate, solo i lampioni e qualche vetrina chiusa dalle grate mandavano le loro fredde chiazze di luce tra gli spettri e io divenni a un tratto abbastanza consapevole per provare, dopo un tempo infinito, paura di me stesso.”
Come scrive con appassionata attenzione Ilaria Gaspari nella prefazione del libro: “La sorpresa di leggere La vita involontaria è stata grande: la scrittrice di cui non c’era modo di sapere quasi nulla, dalla prosa ipnotica, limpida e così classica, ci viene incontro come una vecchia, nuovissima amica; come quelle amiche che incontri per caso e ti sembra di conoscere da molto tempo, anche se non è vero. Ma gli echi delle voci delle sirene, qualche volta, riescono a farci incontrare anche attraverso insondabili distanze, a farci riconoscere nella nebbia”.
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