Io ho avuto una vita interessante, figlio mio, e non te la auguro. Ecco il motivo per cui te la racconto: perché rimanga traccia di ciò che ho fatto affinché la nostra famiglia non sprofondasse nella mediocrità.

Per apprezzare il romanzo di Fernando Velázquez Medina Caribe, la prima cosa da fare è sospendere il giudizio e mettersi in fiducioso ascolto, come un figlio o come un compagno di avventura seduto intorno al fuoco durante una notte di veglia e racconti, senza farsi troppe domande e prendendo per buono tutto quello che ci viene detto. Perché, se in certi momenti gli eventi appaiono un po’ esagerati, o se sembra mancare qualche dettaglio per far tornare i conti, probabilmente dipende dal fatto che la narrazione segue il ritmo e l’andamento irregolare di un racconto orale, inserendo riflessioni, digressioni, iperboli, commenti… perdendosi, in apparenza, per poi tornare a spiegare e riannodare i fili. Per fare un esempio: magari può capitare che solo verso la fine del libro veniamo a sapere dove avesse imparato a leggere (come ci racconta lui stesso all’inizio della sua storia) libri come La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, il Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e Jean de Meun o il Decameron di Boccaccio questo piccolo meticcio, figlio di “un indio maya e di una mulatta, a sua volta figlia di una negra e di un hidalgo castigliano” destinato a diventare il protagonista e principale narratore della storia che leggiamo. 

Dico principale narratore perché il romanzo ha una struttura articolata: Diego Valdés (Grillo, nel testo originale) inizia a scrivere – e a raccontarci in prima persona – la sua avventurosa vita solo nel capitolo tre, dopo che i due capitoli introduttivi ce lo hanno descritto già vecchio, nel suo ruolo di ricco e rispettato capo del piccolo villaggio cubano in cui risiede con la sua famiglia. Inoltre, circa a metà del racconto di Valdés, si incastra un altro mirabolante racconto in prima persona (questo, davvero, ascoltato intorno al fuoco dell’accampamento) narrato da un altro soldato meticcio le cui vicende poi torneranno misteriosamente a intrecciarsi e sovrapporsi a quelle di Don Diego. 

Come se non bastassero i mostri marini, le balene bianche, i serpenti piumati, gli indios cannibali (i Caribe -appunto- del titolo italiano, che gioca su un riferimento forse meno comprensibile rispetto all’originale El mar de los caníbales), i pirati e tutte le peripezie che davvero incalzano il protagonista per l’intera durata del romanzo in scene dal sapore genuinamente cinematografico, ebbene, se tutto questo non bastasse ad avvincere il lettore, il testo è anche intessuto su una serie di citazioni storiche e letterarie, alcune più evidenti e corpose, altre appena accennate. Immagino possa essere sufficiente, per stuzzicare la curiosità, menzionare il fatto che all’origine dell’improvvisa fuga del giovane Diego (il quale leggeva il Roman de la Rose, non lo dimentichiamo) da villaggio di La Habana ci sono: la Santa Inquisizione, un frate francescano, un monaco domenicano e una fanciulla. E che tutte le successive avventure Diego le vivrà al seguito del Maestro Umberto Eco da Bologna, appartenente al misterioso “Ordine Benemerito di Santa Sofia di Alessandria d’Egitto”, meglio conosciuto come La Fraternità”. 

Insomma, una lettura piacevole per l’estate e per gli amanti del genere avventuroso, ma anche molto, molto di più. 

«Un mostro?» disse il maestro Umberto. «Bah! Ce ne sono tanti in giorno per il mondo. Ciò che per noi è un mostro è normale per chi ci vive vicino (…).
I mostri esistono solo nel nostro cervello. Magari sono loro che ci considerano tali».

Tiziana Tonon

Questo romanzo fa parte di Xaimaca, collana editoriale di Arkadia Editore dedicata agli scrittori di lingua spagnola provenienti da un’America meridionale dotata di grande potenza narrativa.