A proposito di Céline, lo scrittore cileno Roberto Bolaño diceva: «È l’unico autore di cui penso che sia stato al tempo stesso un grande scrittore e un figlio di puttana». D’altronde, Céline era un uomo orribile, e non è di certo un segreto. Tralasciando la querelle sul suo presunto antisemitismo (anche se ce ne sarebbe da discutere, tra detrattori e apologeti), la figura di Céline (uomo e scrittore) è da sempre contraddistinta da un che di scandaloso e abissale.

Ma quando uno passa attraverso certe incommensurabili catastrofi, attraverso certe zone d’ombra dove sono emerse alcune delle più grandi abiezioni dell’umanità (nel rovescio delle tradizionali e rassicuranti narrazioni storiche), qualcosa lo si perde. O lo si guadagna. «Quando uno si lancia a ‘sto modo nei viaggi, torna quando può e come può», scrive lo stesso Céline. C’è da uscirne ammattiti, o comunque segnati.

Louis-Ferdinand Céline (Destouches, all’anagrafe) nasce nel 1894, vicino Parigi, in riva alla Senna. Figlio di una famiglia della bassa nobiltà francese, da lui sempre disprezzata. Vive da bohémien fino al 1912, quando si arruola, entusiasta come molti altri, nell’esercito. Sono gli anni che precedono la Grande Guerra; e quando l’Europa sprofonda in quell’inferno di carne da macello, Céline è al fronte, prima in Lorena, poi nelle Fiandre. Qui si becca una pallottola nel braccio destro, e vieni rispedito nelle retrovie con una medaglia al valore militare al collo.

Nel 1916 firma un contratto per andare a dirigere una piantagione di cacao in Camerun. Torna in Francia 9 mesi dopo, con la malaria. Finita la guerra studia medicina. Comincia un’intensa attività come conferenziere per la Società delle Nazioni. Viaggia molto tra Europa, Africa e America per propagandare l’igiene, la profilassi contro la tubercolosi e le nuove conquiste della medicina sociale.

Sono anni che lo segneranno profondamente, lasciandogli un senso di disincanto furioso per le istituzioni e di distacco postumo dagli esseri umani. Tornato in Francia, si stabilisce nei sobborghi di Parigi, dove comincia a esercitare la professione di medico. I suoi clienti: quasi soltanto poveri di borgata, disperati che tirano a campare, misérables. Ombre che finiranno per abitare le pagine più torbide dei suoi romanzi, depositari, alcuni di questi (pochissimi in verità), di quel piccolo germe di bellezza che ancora riesce a illuminare il restante sommario di decomposizione: schegge di luce che terminano nella notte, direbbe lui.

Lo stesso Destouches è un poveraccio, non se la sente di chiedere soldi per le sue visite: sarebbe come rubare, dice. «Visitavo a occhio, per curiosità», compassione? disprezzo? o solamente rincoglionimento? Decisione, quella di visitare gratuitamente, grazie alla quale diventa oggetto dello scherno e dell’odio dei suoi stessi pazienti: non è che uno zimbello, sicuramente medico inaffidabile o professore imbroglione, un coglione tra i coglioni.

Nel 1932 Céline ha 38 anni e ne ha già vissute parecchie; sicuramente abbastanza per scriverci un capolavoro. Quell’anno viene pubblicato da un editore minore di Parigi il suo primo romanzo, il Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit), e lì c’è tutta una vita. Non che sia una memoria, è vita trasfigurata, è già un’altra cosa. «Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia», si legge nell’Ouverture (che qualcuno riconoscerà nell’epigrafe iniziale alla Grande bellezza di Sorrentino), «è dall’altra parte della vita».

Il Viaggio di Céline è un’opera straordinaria, totale. Un libro per tutti e per nessuno. Impossibile, e forse inutile, rendergli omaggio. È uno di quei testi che raccolgono e condensano le grandi tendenze di un periodo storico e le oltrepassano, per restituirle in una forma che non ha ancora smesso di parlarci: messaggio nella bottiglia che ci torna tra le mani, oggi come allora in tutta la sua forza psichedelica e annichilente. Direbbe Moretti (Franco, non Nanni), «un’Opera Mondo».

È il frammento di vita di tale Ferdinand Bardamu, alterego di Céline, «uomo tormentato dall’infinito», al tempo in cui l’infinito s’è già esaurito nelle sole forme della guerra e della malattia, «questi due infiniti dell’incubo».

Bardamu percorre come un picaro di una rocambolesca narrazione seicentesca le tappe imprescindibili del primo Novecento: la Grande Guerra (e la sua inspiegabile assurdità); i colpi di coda del colonialismo, con lo sfruttamento delle risorse del grande continente africano, il razzismo e l’estrema e allucinatoria natura tropicale; l’alienazione delle grandi metropoli (New York, su tutte) e della catena di montaggio fordista; la Parigi delle borgate più povere; e l’abiezione di una borghesia dalla morale definitivamente degradata, ironizzata da Céline fino al parossismo più godereccio e sprezzante.

Ma il Viaggio non è soltanto questo; anzi, forse è tutt’altro. È un lucido delirio sopra i resti e i residui di un’umanità alla fine. La lunga tradizione del romanzo realista francese salta in aria nello sguardo allucinato e definitivo di Céline, reso perfettamente dalla sua incredibile prosa: quella “petite musique” così tanto sofferta (esausto, dopo 3 anni di scrittura, Céline si rifiutò di correggerne la bozza) e ricercata dall’autore (e poi portata allo sfinimento nei romanzi successivi), per restituire alla distanza silenziosa della pagina scritta la forza vitale della lingua parlata. Estrema in ogni direzione possibile: dal rigurgito all’invettiva, dalla bestemmia alla poesia.

Protagonista assoluta è la notte, che si trascina via ogni cosa, inesorabilmente. Il lirismo crepuscolare dei tramonti disseminati ovunque: bellissimi ed emozionanti, su tutti, quelli africani, «tragici come mostruosi assassinii del sole». E le profondità notturne delle città e di una natura che non risparmia nessuno, tra assassini, inganni, marciume e ingroppamenti vari ed eventuali: un carnevale mostruoso che ricorda una lunga e fantastica danza macabra da Trionfo della Morte medievale. Céline tesse così una narrazione intrisa di una comicità grottesca che si prende tutto, salvati e sommersi, tragedie e assurdità: nel dissacrarsi di un riso grasso e bavoso, soffocante e moribondo.

Il Viaggio al termine della notte è un romanzo scandaloso e abissale, come scandalosa e abissale è stata tutta l’opera e tutta la vita di Céline. È un romanzo scomodo, a tratti impossibile da leggere. Qualcuno direbbe, un testo immorale: senza valori. Ma fare letteratura non è anche questo? Harold Bloom, un altro scandaloso (a suo modo, ovviamente), ci rassicura: «I massimi scrittori dell’Occidente sovvertono tutti i valori, i nostri e i loro», sono scomodi, immorali, ma leggerli non farà di noi persone peggiori, né tanto meno migliori; potrà, piuttosto, «donarci l’uso adeguato della nostra solitudine, della solitudine la cui forma definitiva è il confronto con la mortalità»: come al solito la morte – la propria come quella degli altri – che tanto ossessionava Céline e che ancora oggi continua a ossessionare le sue pagine.

Andrea Borio

(Edizione di riferimento: Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, traduzione di Ernesto Ferrero, Corbaccio 2012)