Numero 14 | Novembre 1998

MEINE MUTTER

War sie der große Engel,
Der neben mir ging?

Oder liegt meine Mutter begraben
Unter dem Himmel von Rauch –
Nie blüht es blau über ihrem Tode.

Wenn meine Augen doch hell schienen
Und ihr Licht brächten.

Wäre mein Lächeln nicht versunken im Antlitz,
Ich würde es über ihr Grab hängen.

Aber ich weiß einen Stern,
Auf dem immer Tag ist;
Den will ich über ihre Erde tragen.

Ich werde jetzt immer ganz allein sein
Wie der große Engel,
Der neben mir ging.

MIA MADRE

Era lei il grande angelo
Che mi accompagnava?

Oppure è là sepolta, mia madre,
Sotto quel cielo di fumo –
Nessun fiore mai sulla sua morte.

Potessero i miei occhi splendere
Per farle luce.

Fosse il mio sorriso ancora non sommerso,
Sulla sua tomba lo appenderei.

Ma io conosco una stella
Su cui non è mai notte,
Voglio portarla sopra la sua terra.

Ora per sempre resterò da sola
Come quel grande angelo
Che mi accompagnava.

Traduzione di Giovanna Venditti

«Gesù di Nazareth ha l’età di Dio come l’eternità… io sono Davide e compio le gesta di Sansone, sono Giacobbe e sono Giuseppe… il tempo è gettato nel disordine del passato umano. Oggi sono una poetessa.» Così scrisse durante il suo esilio in Palestina Else Lasker-Schüler, poetessa ebrea di lingua tedesca, molto amata da autori come Karl Kraus, Gottfried Benn e Franz Werfel, e molto imitata dai più giovani autori del movimento espressionista. Donna impetuosa e testarda, come la descrisse suo marito, eccessiva, eccentrica, non bella ma dal fascino misterioso, che diceva di sentirsi più un monello di strada che un profeta, d’essere poetessa e spaventapasseri insieme, attraversò la vita a suo modo, da zingara vagabonda, sedendo ai tavolini dei caffè, da bohémienne autentica, senza curarsi del giudizio altrui o dei bisogni materiali se non di chi era più povero di lei. Anche nei confronti del proprio ebraismo mantenne una posizione personale che le alienò le simpatie della maggioranza degli ebrei tedeschi. «Sono ebrea grazie a Dio!» Non per amore degli uomini, dunque, e scoprì, grazie a Martin Buber, che era possibile amare gli ebrei con rabbia e struggimento.

Molto legata alle sue origini, introdusse nella lirica tedesca elementi della tradizione ebraica, come lo stile biblico e motivi ebraico-cabalistici, mescolandoli in modo poco ortodosso a elementi della tradizione cristiana e creando una «nuova, passionalissima innodia» (Mittner). Il tono e la forma della sua poesia sono spesso quelli della preghiera pura ed ella fece suo il compito che Walter Hasendever dava ai poeti, quello di «formulare un nuovo concetto di Dio per il nostro tempo» (Grunfeld). «Che tipo di Dio è quello visto dagli ebrei?» si chiede Moni Ovadia, l’ultimo cantore della tradizione ebraica dell’Europa orientale. Per la Lasker-Schüler Dio è colui che ha concluso un patto con i poeti e gli artisti, i beniamini tra tutti i suoi figli (Baioni), che ha una speciale predilezione per i poeti, per i quali un angelo aspetta alla porta. Tutta la sua poesia è popolata di angeli: angeli sono ad esempio gli amici morti, come il rivoluzionario russo Johannes Holzmann, da lei ribattezzato Senna Hoy. Un’immagine nella tradizione biblica collega in modo diretto cielo e terra, Dio e uomo: quella della scala nel sogno di Giacobbe. Dall’alto della scala Dio parla all’uomo. La scala si rivela così come «l’immagine dell’incarnazione della Parola. E la Parola è il ponte gettato tra cielo e terra. La Parola è la porta del cielo» (Mautner). Parola religiosa e Parola letteraria. Su questa scala vanno e vengono gli angeli, mediatori tra cielo e terra. Angelo tra gli angeli, emanazione del divino, la madre, persa quando la poetessa aveva ventuno anni e che ella più tardi avrebbe voluto tra i suoi lettori. «La madre sa di essere depositaria del pensiero ebraico. Nella sua pietas generativa trasmette il segno dell’ebraismo. Tant’è che è ebreo colui che è di madre ebraica» (M. Ovadia).

La madre è figura più che fondamentale nella vita di molti ebrei famosi: Jones sosteneva ad esempio che il coraggio di Freud gli derivava dalla sicurezza suprema nell’amore di sua madre. Kafka visse invece il contrasto tra la cultura tedesca/occidentale e l’identità ebraica già nel suo rapporto con la madre: scrisse infatti di non averla amata quanto meritava perché la lingua tedesca glielo aveva impedito, dal momento che l’appellativo tedesco dio di «Mutter» non le si addiceva e la rendeva agli occhi del figlio un po’ comica. Più intenso ancora è il rapporto tra madre e figlia perché a esso si aggiunge la «dimensione della solidarietà» (M. Ovadia). La Lasker-Schüler non ereditò da sua madre soltanto l’identità religiosa e culturale, ma in un certo senso anche l’identità poetica attraverso il loro gioco infantile del «dire le parole in rima».

La dimensione giocosa rimase una caratteristica della sua poesia insieme all’amore per la lingua tedesca, ma il suo è un tedesco anarchico, personale come tutta la sua produzione lirica, allusivo, pieno di parole e di combinazioni nuove, di metafore e giochi di parole che lo rendono spesso intraducibile. Una lingua per iniziati. In quest’ottica va vista anche la propensione della poetessa a inventare nomi nuovi per le persone che amava, un modo giocoso per ricreare la realtà, per trasfigurarla nel regno fantastico della poesia di cui si sentiva il principe. «Le poesie avvengono in me, si compongono da sole in me … un poeta non ha mai intenzioni quando scrive poesie… sente solo la necessità di scriverle… ascoltando il suo angelo… un poeta è una pianta, non pensa al frutto e a cosa ne faranno gli uomini».

Negli ultimi anni la sua poesia assume i toni del kaddish, la preghiera ebraica per i morti che, come vuole la tradizione, deve serbare la memoria dei defunti chiamandoli per nome. In questo modo divenne anch’ella, come disse dei sopravvissuti Manès Sperber durante la guerra, uno dei «cimiteri ambulanti degli amici assassinati». Estranei le furono però i toni dichiaratamente politici. Richiamandosi a William Blake, il poeta inglese visionario e rivoluzionario, la Lasker-Schüler fu sempre vicina ai poveri e agli oppressi di ogni tipo e sua è la rappresentazione artistica più sentitamente riuscita del sogno di armonia ebraico-tedesca, ebraico-cristiana, della letteratura tedesca di ogni tempo, nell’opera in prosa Arthur Aronymus, dedicata alla memoria del padre, e suo è anche un programma per il miglioramento delle condizioni di vita a Gerusalemme in cui auspicava, tra le altre cose, la pacificazione con gli arabi, «nostri fratelli nel cuore».

Giovanna Venditti

Else Lasker-Schüler (Wuppertal-Elberfeld 1869 – Gerusalemme 1945) scrittrice tedesca. Di famiglia ebraica, abbandonò la Germania nel 1933 e dopo alcuni anni di peregrinazioni si stabilì a Gerusalemme. È autrice di drammi, romanzi e novelle (fra cui la raccolta Il principe di Tebe, Der Prinz von Theben, 1914 e La gatta rossa), ma soprattutto di liriche: Stige (Styx, 1902), Ballate ebraiche (Hebräische Balladen, 1913), Il mio pianoforte azzurro (Mein blaues Klavier, 1943). La sua opera è caratterizzata da una profonda nostalgia e da una religiosità che ha radici ebraiche. All’ansia della trasfigurazione mitica unì il gusto del grottesco, del fantastico e delle atmosfere esotiche. Fu tra i primi esponenti dell’espressionismo.
Fonte: ibs.it

«lmmer wirst du mir
Im scheidenden Jahre sterben, mein Kind,
Wenn das Laub zeifliesst 
Und die Zweinge schmal werden.
Mit den roten Rosen
Hast du den Tod bitter gekostet […]»