“Capisci, Sigmund Freud era un uomo molto intelligente ma (…) un errore l’ha fatto. I tre piani dell’anima non esistono dentro di noi. Niente affatto! Esistono nello spazio tra noi e l’altro, nella distanza tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra storia. E se non c’è nessuno ad ascoltare, allora non c’è nemmeno la storia. Se non c’è uno così, a cui svelare segreti, con cui sciorinare ricordi e consolarsi, allora si parla con il segretario elettronico, Michael. L’importante è parlare con qualcuno. Altrimenti, tutti soli, non sappiamo nemmeno a che piano ci troviamo, siamo condannati a brancolare disperati nel buio, nell’atrio, in cerca del pulsante della luce.”
In questa frase si potrebbe racchiudere tutta l’opera di Eshkol Nevo, come in un manifesto di poetica: c’è il suo stile colloquiale, la capacità di dare voce ai personaggi, la delicata invenzione verbale, le fondamenta psicanalitiche e l’architettura narrativa; soprattutto, c’è la fiducia che una storia ci sia, che si possa raccontare, e c’è la necessità che ci sia qualcuno da entrambi i lati del racconto.
La biografia di Eshkol Nevo (Gerusalemme, 1971) non offre particolari brividi, ricalcando il percorso dello scrittore – occidentale, alto borghese – di successo: gli studi un po’ in patria un po’ negli Usa, la laurea in psicologia, il lavoro da copy in un’agenzia, poi abbandonato quando le vendite dei libri glielo permettono, i romanzi (cinque finora), i progetti collaterali (una raccolta di racconti, un libro per ragazzi, un saggio, un film, le lezioni di scrittura creativa. Forse si può dire che l’elemento di maggior rilievo della sua vita non sia nella vita sua, ma in quella di suo nonno: Levi Eshkol, terzo premier dello Stato di Israele, uno che se la batteva con Ben Gurion per capirci (anche se, in un paese piccolo e giovane come quello, chi non ha almeno un padre della patria in famiglia?).
I libri di Nevo sono stati tradotti un po’ dappertutto: in Europa, Germania compresa, e persino nei paesi arabi. Ma se non vado errato, l’Italia è l’unico paese dove i suoi romanzi sono stati pubblicati tutti. Nel profilo che segue, prenderemo spunto soprattutto dai tre più indicativi: il primo, l’ultimo, e quello che senza dubbio è il suo capolavoro.
Eshkol Nevo, Nostalgia, 2004, Neri Pozza, traduzione di Elena Loewnenthal e revisione di Raffaella Scardi
Eshkol Nevo, Neuland, 2011, Neri Pozza, traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi
Eshkol Nevo, Tre piani, 2017, Neri Pozza, traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi
Bisogna innanzitutto dire che Nevo è un narratore come pochi, che dico, è un mostro di bravura. Ecco come ti aggancia con l’incipit in Tre piani:
Quello che sto cercando di dirti è che, al di là della sorpresa, c’era un’altra questione di cui io e Ayelet non osavamo parlare: il fatto che in qualche modo sapevamo – dovrei dire sapevo – che poteva succedere. I segnali erano lí da sempre, ma preferivo ignorarli. Troppo comodo, una coppia di vicini che ti tengono la bambina. Pensaci.
Aiuto. Come si fa a non seguirlo, con l’ansia nello stomaco, fino a sapere com’è andata (e lui abilmente procrastina fino alla fine, e oltre)? Bisogna però aggiungere che la sua sapienza non è solo tecnica, non sono solo trucchi narrativi. La principale caratteristica del suo modo di raccontare è l’uso quasi esclusivo della prima persona. Che però cambia, si sposta di personaggio in personaggio. Già perfettamente matura nell’esordio di Nostalgia, questa modalità raggiunge livelli vertiginosi in Neuland, storia epica di oltre seicento pagine in cui non sono soltanto i protagonisti a prendere la parola, ma anche le comparse, quasi tutti quelli che calcano la scena hanno il microfono in mano almeno una volta. È il caso di insistere: non è solo questione di tecnica – pur prodigiosa, visto che spesso i passaggi da una voce all’altra sono rapidissimi, e data la necessità comunque di tirare le fila della storia in modo comprensibile, anzi coinvolgente. Viene in rilievo la capacità umana di Eshkol Nevo di calarsi nel punto di vista degli altri, peggio di assumere su di sé, di farsi carico di vissuti e sentimenti lontanissimi dalla propria esperienza (non c’entra niente, ma a me ha fatto venire in mente un altro prodigio di empatia, il David Leavitt delle prime raccolte di racconti: un ragazzo di vent’anni che come niente ti fa sentire da dentro cosa vuol dire essere una donna di sessanta malata di cancro). L’alternarsi di voci si attenua in Tre piani, dove assume un ordine più lineare se pure con bei guizzi, ma resta notevole la capacità di mettersi nei panni: due voci narranti sono di donne (checché se ne dica, cosa tostissima: facile dire Madame Bovary c’est moi, se ti chiami Flaubert; la verità è che “Madame Bovary ci sarete voi”, come dice il protagonista di Respirazione artificiale di Ricardo Piglia). La terza voce è maschile, anzi machista, si scoprirà un po’ alla volta, e anche qui l’identificazione non era proprio immediata.
Identificazione che, in genere, Nevo riesce a creare non solo tra sé e il personaggio, ma anche tra personaggio e lettore: che poi è quello lo scopo finale. La riuscita dipende anche da un fattore, per così dire, generazionale. Nevo è del ’71, in Italia lo definiremmo ancora giovane: è comunque della generazione successiva a quella della santissima trinità Yeoshua–Grossman-Oz. Lui, e i suoi protagonisti giovani, ce li vediamo fare le stesse cose che abbiamo fatto anche noi, figli della classe media agiata occidentale: gli studi universitari rilassati, spesso da fuorisede ben pasciuti; i viaggi zaino in spalla, interrail o autostop, avventure tutto sommato protette; il gusto di certe letture e certe musiche, l’attrazione verso l’introspezione, la psichedelia, i funghetti allucinogeni; il sogno che a un certo punto qualcosa, o tutto, potesse cambiare… E di contro, questa identificazione è salutare, direi necessaria, per consentirci di saltare il fosso che ci separa, per fortuna, da certe realtà ebreo-israeliane lontane anni luce dal nostro quotidiano: quanti di noi hanno avuto tutta la famiglia deportata in un treno con le porte piombate? Quanti, dopo aver fatto tre anni di leva obbligatoria, sono stati richiamati nell’esercito e si sono trovati incastrati all’interno di un carro armato che va a fuoco?
Questo ci porta dritti a un’altra dicotomia all’interno della quale si muove l’opera di Nevo: quella tra grande Storia e piccole storie. Non è solo per il nonno eroe, e mai conosciuto: è la storia e la cronaca di Israele che lo rende inevitabile. Ma lo scrittore riesce a sovrapporre i due strati in maniera mirabile, fino a farli coincidere: senza che la Storia diventi metafora, senza che le storie diventino un pretesto per pontificare di politica. Neuland è la vicenda, tra le altre, di un figlio che gira il Sudamerica alla ricerca del padre, il quale ha sbroccato per un trauma post-bellico scoppiato con trent’anni di ritardo, e se n’è andato. Quando finalmente Dori lo becca, in Argentina, scopre che ha fondato una colonia laggiù, una mini utopia dis-cronica (Altneuland, vecchia-nuova-terra, era lo scritto del 1902 di Theodor Herzl, la fondazione mitica del sionismo).
“(…) Ho dimenticato Gerusalemme e rammentato le parole di Yehuda Ha’Levi: Zion si trova nel luogo in cui regnano pace e tranquillità”.
Suo padre gli ha porto il libro, ma Dori non l’ha preso. Per quanto ricordo io, ha ribattuto, Zion si trova in un luogo molto preciso.
Oy, Doriño, non è questo il punto.
Allora spiegamelo, ha chiesto, e ha pensato: sono padre anch’io, che la pianti di chiamarmi Doriño.
Un paese non può esistere solo per sopravvivere, Doriño. Lo scopo originario per cui è stato fondato Israele era di radunare gli ebrei della diaspora in un posto dove non sarebbero stati perseguitati. Quello era lo scopo. Al tempo passato. Un paese ha bisogno di una visione. Un paese privo di visione è come una famiglia senza amore. Se non c’è l’amore, per cosa conservare la famiglia?
Insomma, dove vuoi arrivare? Che rapporto ha tutto questo con Neuland? Dori iniziava a perdere la pazienza. Lo irritava che suo padre avesse ripreso a parlargli come un guru si rivolge ai suoi adepti, e lo irritava ancora di più che, pur non dimostrando un pizzico d’interesse nei confronti dei suoi familiari, usasse la famiglia come metafora –
Neuland sarà il memento, ha detto. Il memento dell’Atene che lo stato ebraico sarebbe dovuto essere, se non fosse diventato Sparta.”
Ecco come si intrecciano tragedie millenarie e piccoli drammi familiari, senza che nessuno dei due sembri fuori luogo. In effetti Neuland è paradigmatico di questo e di altri aspetti: la precisione chirurgica che ha Nevo di affondare nei rapporti genitori-figli, come in quelli di coppia, ha qualcosa di doloroso, quasi di bergmaniano. Poi c’è la questione del viaggio, del muoversi fuori da Israele: che come ha fatto notare il giovane critico Omri Hergoz, nella letteratura classica israeliana è un cliché, un momento di formazione necessario per tornare poi nel caldo grembo della patria; Eshkol Nevo spezza meritoriamente questo vincolo.
E ancora, altra unione di opposti su cui si muove in equilibrio Nevo: tradizione e innovazione. Da una parte, come si è appena visto, rottura degli schemi: invenzioni a più voci, sperimentazioni linguistiche, shift temporali da capogiro (sempre in Neuland), labirinti sottili. Dall’altra una solidità quasi classica, una fiducia infinita che la realtà esista, e che sia raccontabile: un atteggiamento, non saprei dire altrimenti, ottocentesco. Le gallerie di varia umanità che popolano Nostalgia e Neuland sono – altra inaggirabile retorica – niente meno che balzacchiane; e sempre Neuland, stringi stringi, è la storia di un amore non consumato: per seicentoquaranta pagine, ci credereste?
Esempio di sperimentazione linguistica. Il fraseggio di Nevo, di per solito molto piano, colloquiale, vicino al parlato o meglio al pensato, ogni tanto s’impenna in cadenze ritmiche, quasi poetiche. Succede di rado, senza preavviso, ma è bello (e brave le traduttrici):
“Sono giorni di paura. Dal Libano partono cannonate a dismisura. All’aeroporto Ben Gurion non arrivano passeggeri. Progetti agricoli congelati, i cetrioli sono disperati. Abu Dhabi decide di interrompere le relazioni (no, Abu Dhabi, non ci abbandonare). Gerusalemme celebra tremila anni ma alla festa mancano gli invitati. I politici azzimati vorrebbero elezioni, ma niente data, non si sono accordati. Una coppia di giordani che ha chiamato il figlio Rabin si rifugia in Israele per scampare alla furia della folla, nel loro paese. Follia di violenze tra vecchi e sfruttati. I bambini la notte sognano attentati. Sopra il ponte di Mevasseret si ferma la nuvola bianca di un pensiero: per un momento avevamo creduto che la pace sarebbe arrivata davvero.”
Esempio di labirinto invisibile. Tre piani: l’ultimo arrivato sembra più banale, quasi un passo indietro. Sembra il classico romanzo di racconti, anzi tre racconti legati insieme dal mero pretesto di essere ambientati nello stesso palazzo. Ma più si va avanti e più si scoprono corrispondenze segrete, echi, suggestioni, leitmotiv: più che tre storie che si incastrano e si completano, si finisce per supporre che siano la stessa storia raccontata in tre modi diversi (e oltre non spoilero).
Infine, la questione che tutti, dall’inizio, ci stiamo ponendo: ma e…? La questione palestinese. E qui la dicotomia tra rimozione e catarsi, tra tabù e sua infrazione, è sia esterna che interna all’opera di Nevo. Mi spiego. È lo stesso scrittore a dichiarare: “la versione palestinese del conflitto è un vero e proprio tabù nella società israeliana”. E racconta la curiosa situazione per cui, siccome Nostalgia fa parte del programma di esame alla maturità, quando studiano letteratura i ragazzi apprendono il punto di vista palestinese; poi passano ai libri di storia e a quel posto trovano un buco, una censura. In Nostalgia, una delle strazianti vicende è quella di un palestinese che abitava nella casa dove vivono i protagonisti, e dalla quale la sua famiglia è stata cacciata quando i coloni ne hanno preso possesso (eh, così funziona); l’uomo vorrebbe tornarci, anche solo per cercare un oggetto caro alla mamma. Scandalo, sale sulla ferita, contestazioni e urla ogni volta che Nevo parla in pubblico. Eppure: lui stesso non sfugge alla rimozione, in altri luoghi della sua opera. In tutto il tomo di Neuland, per dire, le occorrenze del termine “palestinese” sono una; analogamente, una sola volta compare il termine “arabi”, e quasi per sbaglio. In Tre piani, vengono nominati a un certo punto “due drusi”, e per citare un episodio di violenza sessuale.
Il fatto è indicativo. Di quanto anche una voce critica, uno scrittore che senza giri di parole nomina il fallimento di Israele, possa consciamente o meno sorvolare sulla questione palestinese – una questione che laggiù è vita e ansia quotidiana da settant’anni – e descrivere quel fallimento come una cosa tutta interna. E di quanto ci aspettiamo di leggere, di ritrovare, nei prossimi inevitabili capolavori di Eshkol Nevo.
Dario De Marco
Di questo articolo esiste anche una versione in inglese
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