“Io non ho bisogno di te.

            Sei parole; una per ogni palmo, una per ogni piede, una per la testa e una per il cuore.”

Questa sentenza sembra trascinarsi fra le righe del testo, dal folgorante incipit sino alle ultime battute.

Io non ho bisogno di te.

Lo ringhia il corpo di Eva, il suo corpo minuscolo e magro “con braccia e gambe a stecchetto come nei disegni dei bambini”. Un corpo sotto gli occhi di tutti, accecato dalle luci dei riflettori, un corpo che presto imparerà a usare come arma, contro se stessa, a favore delle sue esigenze, di ogni sua mancanza. Un corpo che cammina fiero tra le macerie della sua generazione, una leonessa del cemento in questa “nostra periferia nella periferia, città nella città”, su un’isola di povertà e miseria scagliata da un dio qualunque nell’Oceano Indiano.

Le Mauritius, lontane dai turisti, sono anche il palcoscenico di Sad, Sadiq il triste, col suo cuore aperto, in mostra per Eva, carne fresca per i suoi denti affilati. Nel branco lui si amalgama, gonfia i muscoli e le parole; poi in silenzio s’innamora della poesia e ruba quei versi, li incide sui muri perché lei li veda ogni volta che torna a casa, e possa cercarli nelle pagine ingiallite nella sua camera; e poi possa nascondersi con lui tra le pieghe di quelle parole.

C’è Savita, l’alter ego di Eva, che calca le ombre dietro le quinte. Savita la buona e risoluta, la perspicace, l’affabile e necessaria boa che tiene a galla la leonessa. C’è Clélio, spettatore urlante, con la sua rabbia, la sua forza incontrollabile, il furore della polvere grigia che gli sporca la faccia, la stessa polvere che calpesta ogni giorno nel suo quartiere.

In questo spettacolo corale ci sono le voci di quattro diciassettenni, le loro storie oblique, inevitabili. Mischiano sogni e miseria: ci raccontano la loro versione dei fatti, l’intreccio che si propaga da uno all’altra, l’ondeggiare incostante su questa zattera alla deriva. Sono già coperti dalla cenere della loro fine, schiacciati dalle colpe di ogni genitore e anche se “i figli hanno ali di piombo e si ostinano a credere di saper volare, finché non li ritrovi, rifiuti in un mucchio di rifiuti”, loro in un modo o nell’altro non si arrendono e, in coro, innalzano questo urlo armonico per sollevarsi dalle rovine. Trascinano la loro pelle fra la pagine di questo libro, ognuno col proprio corpo, pronto a subire gli affanni, sopportando i lividi che cambiano colore e si trasformano nell’abito di Arlecchino. Ma questa non è una recita e ce lo dimostrano vivendo, esistendo nonostante – nonostante la città, il padre, la madre, la scuola, la gente, gli uomini e i loro desideri.

La loro storia accumulerà sconfitte e battaglie, graffi, sospiri, sogni da lasciar rotolare sui prati a bordo strada. Tutto si condenserà sopra le teste di quei palazzi e le loro genti, fino a diventare grigio e poi ancora più scuro, li senti i tuoni in lontananza? La pioggia è pronta a spazzarti via.

Grazie all’attenzione della casa editrice Utopia stringiamo di nuovo tra le mani un veleno (o antidoto) che va buttato giù tutto d’un fiato. Hanno scelto di spolverare le parole – mai come oggi così attuali – di Ananda Devi, prolifica e pluripremiata autrice mauriziana, che ci spinge con un tridente puntato sulla schiena in questa prosa dal sapore di cemento e polvere, dove ogni parola, ogni suono ogni idea, diventa poesia. A questo punto sarà facile farsi cullare sul bordo del precipizio, ci accorgeremo di cadere quando ormai avremo i piedi sospesi per aria. Ananda Devi ci regala una scintilla, una bomba atomica al rallentatore, di cui scopriamo le macerie pagina dopo pagina, ma che solo alla fine sentiremo esplodere. A quel punto ci accorgeremo di pensarla come Eva: “Cammino, anche se vorrei correre verso me stessa.”

Ormai è tardi.

Io non ho bisogno di te, ma se ti avrò accanto nasconderò un sorriso sotto la pioggia.

Yari D’Ambrosio