La fantascienza è un sogno ad occhi aperti, pieno di simboli parlanti. Questa di Ayase Maru, La foresta trabocca, è il racconto fantasmagorico della situazione femminile in Giappone, o in molte altre culture tradizionali e patriarcali nel mondo.
Al centro c’è Nowatari, scrittore di medio successo, ma anche demiurgo, pigmalione. Seduttore e manipolatore, fagocita le donne nella sua avventura di vita e le modella a proprio piacimento, dominandole sessualmente, plasmandone il carattere grazie alle doti manipolatorie, trasformandole nelle protagoniste delle sue narrazioni dove diventano caratteri monolitici dell’unico sguardo che le può attraversare, quello maschile.

Dicevano le critiche letterarie Sandra Gilbert e Susan Gubar, nel loro classico The Madwoman in the Attic[1], “The poet’s pen is in some sense (even more than figuratively) a penis”, per raccontare secoli di canone letterario esclusivamente maschile. Su questo sfondo apparentemente immanente la moglie, Rui, un giorno riprende possesso dell’azione e compie un gesto apparentemente innocuo senonché stravagante, ingurgitando una grande tazza di semi oleosi. È la porta verso la mutazione, che comincia a trasformarla nella “foresta che trabocca”: mette germogli dai pori della pelle, perde la voce, le foglie diventano gli organi di manifestazione delle sue emozioni. La trasformazione di Rui è raccontata attraverso gli occhi di un altro uomo, l’editor Sekiguchi, ed appare quindi mostruosa, come se la donna mutasse prima in un feto vegetale e poi in una macchia boschiva che comincia a divorare l’intera stanza, uscendo per propagarsi nel quartiere, assumendo le modalità di movimento fotosensibile e comunicazione chimica delle piante. Per qualcuno quell’invasione verde è caos, sono emozioni materializzate ma anche spazi erbosi e pacifici in cui Rui torna a esprimersi, apparendo serena ai fortuiti visitatori di quella boscaglia.

Chi non si addentra nella macchia vegetale è il marito: dapprima non è mosso da alcuna empatia, incorpora apparentemente senza reazioni anche questa sua esperienza. Il suo modus predatorio e la sua attitudine manipolatoria proseguono con l’ingenua e giovane Yuko, (letteralmente “tramonto sul lago”), trasformata e ribattezzata Yūko, “bambolina di cotone”. Nowatari fa alle donne del mondo reale ciò che fa alle protagoniste dei suoi libri, come in un gioco erotico basato sul role playing, che però soddisfa solo chi lo impone. Attraverso i suoi ricordi, veniamo a conoscenza degli esordi di quel carattere dominatore, privo di sentimento, ambizioso. E quando il punto di vista della narrazione si muove dentro di lui lo scopriamo infastidito dalle emozioni altrui, incurante della sofferenza provocata, inabile alla relazione. C’è un po’ di Nowatari, in ogni uomo di questo romanzo.

Questo libro parla alle donne giapponesi. Ma parla anche a tutte le donne, orientali ed occidentali, che non hanno diritto di pensiero, parola, tantomeno scrittura. Ed è, macroscopicamente, una riflessione di come l’arte e la letteratura, per secoli, abbiano presunto un unico punto di vista – quello maschile – dandolo per scontato, unico e innegabile. Ayase Maru è una scrittrice giapponese che ha passato parte dell’infanzia in Sudan e negli Stati Uniti, si è laureata in letteratura all’Università Sophia di Tokyo, vive in Giappone. Questo è il suo primo libro tradotto in italiano, e pur immergendo i lettori nella cultura nipponica -un grazie immenso a Ozumi Asuka per il glossario così dettagliato – crea un cosmo parallelo e universale, come la foresta che comincia a divorare l’intero quartiere, in cui si colloca un confronto attuale a tutte le longitudini: quali sono le basi della disequità tra uomo e donna? in che modo si declina? Come rientra nella sfera del racconto e quanto, la letteratura, mantiene questa diseguaglianza?

Le storie di molte donne si intrecciano, mentre lo scrittore Nowatari sembra attraversare inflessibile la sua vita, concentrato solo sul proprio successo, ignaro del significato dell’amore se non per uno scopo di soddisfazione narcisistica, abile maestro di “mansplaining”, che sa tradurre alle donne il loro stesso pensiero: “Forse intendi dire che…”. Dall’altra parte, ci sono le molte donne che da reali diventano simboli, donne dai nomi acquatici che cambiano forma, le cui storie costellano il romanzo fino al momento in cui, finalmente, Nowatari e Rui si reincontrano, nel bosco e nel sogno, trasformandosi vicendevolmente in simboli, materializzando come in un anime le loro emozioni. È il momento dello scontro, reso in maniera talmente vivida da sembrare una graphic novel: è il momento in cui la fantascienza e il racconto onirico si fondono, la letteratura che ha sempre intrappolato le donne “in soffitta” -come ha fatto con Bertha Mason in Jane Eyre- può finalmente liberarle.

Daniela Scavino


[1] Gilbert, Sandra M., and Susan Gubar. The Madwoman in the Attic: The Woman Writer and the Nineteenth-Century Literary Imagination. Second Edition. New Haven: Yale University Press. 1979, 2000.