La condizione della solitudine aleggia tra i versi di Cesare Pavese come una costante, l’unica via che permette all’uomo di arrivare alla contemplazione del mondo. Le poesie-racconti di Lavorare stanca sono, infatti, una costellazione di figure sole che si guardano attorno e scoprono la vita. I reietti, gli eremiti, gli spaesati e gli ubriachi diventano nei componimenti di Pavese dei privilegiati, in quanto si rivelano essere liberi di distaccarsi dalle regole sociali e di accorgersi di ogni minimo particolare del mondo. Tutte queste figure, nelle pagine della prima raccolta pavesiana, si ritrovano a condividere situazioni di estasi o autenticità di fronte al reale. I loro sono attimi di profonda introspezione che li portano alla constatazione di verità che solitamente rimangono nascoste dietro gli impegni quotidiani. È nell’ozio, quindi nel tempo sollevato dal lavoro, che Pavese individua il momento più redditizio per la vita.

Mania di solitudine può essere intesa come la poesia manifesto dell’attitudine di molti personaggi pavesiani di fermarsi ad osservare ciò che li circonda. Il suo protagonista è un uomo, o, meglio, un corpo, «seduto alla chiara finestra» (v. 1) a guardare una notte stellata. È più corretto parlare, in questo caso, di un corpo, e non di una persona, perché si tratta di un componimento fortemente sensoriale: l’io narrante è una voce che si spinge fuori dall’oscurità della sua stanza per brancolare tra i tetti e le strade della città in cerca di un assaggio di esistenza («ascolto i miei cibi nutrirmi le vene / di ogni cosa che vive su questa pianura», vv. 23-24). Mentre «guarda nel cielo» (v. 2) alla ricerca di nutrimento vitale, l’uomo mangia «un poco di cena» (v. 1), più precisamente delle ciliegie («Le stelle son vive, / ma non valgono queste ciliege, che mangio da solo», vv. 9-10). Natalia Ginzburg, nel ritratto che fa dell’amico Pavese in Lessico Famigliare, utilizza delle immagini con dei dettagli molto simili («non tollerava di passar le serate in solitudine»; «veniva da me e Leone mangiando ciliege»), a dimostrazione, quindi, della forte componente autobiografica presente nei personaggi creati da Pavese in Lavorare stanca.

Il protagonista di Mania di solitudine scruta l’orizzonte e pensa «chi sa quante donne / stan mangiando a quest’ora» (vv. 5-6). In questo movimento del pensiero, che dalla contemplazione del paesaggio si disloca e diventa fantasticheria circa le occupazioni di alcune figure femminili, si può rintracciare il ricordo di alcuni versi de La sera del dì di festa di Leopardi, un idillio in cui l’io lirico, solo di fronte alla placidità della notte, guarda la luna che si posa sopra le case e intanto immagina la donna amata che si riposa nel letto a fine giornata.

A differenza del testo leopardiano, in cui l’io lirico guarda alla propria solitudine con forte amarezza, nella poesia di Cesare Pavese l’uomo ne è totalmente appagato; proprio nella tranquillità notturna e nel riposo dal lavoro, che «stordisce il mio corpo e ogni donna» (v. 7), egli riesce a dedicare del tempo all’esplorazione del mondo, seppur solo con lo sguardo e con la mente. La mania di solitudine è uno stato di intima soddisfazione della propria fame di vita e di conoscenza («ogni cosa, nel buio, la posso sapere / come so che il mio sangue trascorre le vene», vv. 19-20). Essere soli, in Lavorare stanca, diventa un’occasione per liberarsi dalle sovrastrutture sociali e vivere un momento di naturale autenticità, in cui si ha davvero consapevolezza di tutto ciò che si percepisce e si ha il completo controllo di se stessi («qui al buio, da solo, / il mio corpo è tranquillo e si sente padrone», vv. 29-30).

Mania di solitudine racconta, quindi, di un uomo immobile nell’oscurità e nel silenzio di una camera vuota («nella stanza è già buio e si guarda nel cielo», v. 2), che riesce, però, a entrare in totale armonia con l’ambiente esterno («basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma / nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo», vv. 15-16). Guardando fuori dal «quadrato di cielo» (v. 25), ovvero dalla finestra, il suo pensiero inizia a vagare per le «vie tranquille» (v. 3) dell’«aperta campagna» (v. 4); vede le stelle accendersi insieme alle luci delle case («fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare / sulla larga pianura la terra», vv. 8-9) e prende coscienza «di tutti i fragori» (v. 26) del mondo. Si mette in ascolto del «brusìo di silenzio» (v. 18) e arriva perfino a immaginare i rumori domestici che, invece, fa chi trascorre la serata in compagnia.

Nelle poesie pavesiane, il riposo solitario diventa un momento di compartecipazione alla natura, un’occasione per concentrare la propria attenzione sul cosmo nella sua interezza, mantenendo, tuttavia, sempre un punto di vista esterno («un gran sorso e il mio corpo assapora la vita / delle piante e dei fiumi e si sente staccato da tutto. / Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma / nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo», vv. 13-16). Gli uomini soli di Lavorare stanca seguono le orme del loro creatore, del poeta, e vivono delle esperienze tanto autentiche da risultare riflessi dell’incredibile atto della scrittura.

Amedeo Bova

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