He is all pine and I am apple orchard. My apple trees will never get across and eat the cones under his pines, I tell him. He only says, “Good fences make good neighbors.”
Passeggiare sul belvedere di Punta Ristola, luogo accarezzato dal sole e avvolto nel mistero di un amore leggendario che riecheggia nel monotono infrangersi delle onde sulle rocce, è come peregrinare senza meta certa in una dimensione sospesa. La punta è un posto magico, un posto in cui ogni elemento è fortemente in relazione con l’altro in un continuum identitario. La scionnula, espressione dialettale antica con cui i pescatori di Leuca indicavano la schiuma bianca prodotta dalle onde, è il perfetto pendant delle falesie circostanti e del bianco della pietra leccese del Trittico della Trascendenza, un triplice gruppo scultoreo che comprende Leucàsia, la statua della bellissima sirena bianca che ha dato origine al nome della località di Leuca.
La leggenda narra che Leucàsia s’invaghì di un baldo pastore di nome Melisso, a sua volta follemente innamorato di una fanciulla di nome Aristula. In preda alla gelosia, la sirena dalla chioma dorata decise di scatenare una terribile tempesta che scaraventò i corpi dei due giovani innamorati alle estremità della baia. Presa da commozione, la dea Minerva pietrificò i corpi dei due amanti, tramutandoli nei promontori di Punta Ristola e Punta Meliso. Le due punte, che non si toccavano mai ma che si protendevano nel mare quasi ad abbracciare la baia, suggellavano l’eternità di un amore invincibile.
Nel luogo incantato sono le 16:28, il sole si immerge nel mare, le acque si accendono di un rosso vermiglio diventando un tutt’uno con la panchina su cui, da adolescente, ero solita trascorrere pomeriggi interi, con il mio taccuino, con i miei pensieri. L’osmosi tra l’interno e l’esterno risveglia il mio corpo: il sistema simpatico aumenta la frequenza cardiaca e il cuore martella nel petto all’unisono con il rumore bianco emesso dal mare. L’incontro dei due mari, Ionio e Adriatico, è un miracolo naturale. Il verde smeraldo ionico si fonde con il blu cobalto adriatico in un abbraccio che esalta i due colori senza che l’uno si annulli nell’altro. Ho sempre pensato che non ci sia muro o confine che tenga di fronte a un tale spettacolo.
E oggi, più che mai, in questo crepuscolo profetico mi tornano in mente le parole di Robert Frost “Before I built a wall I’d ask to know what I was walling in or walling out” (Prima di costruire il muro avrei voluto sapere cosa chiudevo dentro o lasciavo fuori) nella sua significativa poesia Mending Wall. Con la ripetizione del verso “Good fences make good neighbors” (Buoni muri fanno buoni vicini), la poesia riflette sull’azione rituale che due vicini compiono ogni anno in primavera, ovvero di riparare il muro di pietra che divide le loro proprietà. Quello della riparazione è un atto ciclico paradossale, dettato dalla tradizione patriarcale e non dalla logica “He moves in darkness, he will not go behind his father’s saying” (Si muove nell’ombra, non andrà oltre il detto di suo padre), perché la natura, rovesciando i massi e facendo gonfiare il terreno, sfalderà sempre il muro.
Più che sulle identità dei due protagonisti, l’enfasi è posta sulle interazioni che si innescano durante il processo di ricostruzione del muro che simbolicamente rappresenta la dualità della natura umana. Da un lato il desiderio di preservare la propria individualità, definendo i confini e gli spazi personali, dall’altro la tendenza a costruire barriere che incrinano i legami umani e inficiano la comunicazione.
Il recente collasso umanitario nella Striscia di Gaza, l’ennesimo femminicidio sono la prova evidente di un mondo che si professa globalizzato ma che è permeato da muri visibili e invisibili, da barriere fisiche che delineano confini geografici, fratture sociali che creano divisioni tra gruppi umani, da barriere psico-emotive e distorsioni culturali che generano disfunzioni nelle relazioni e sfociano nella normalizzazione della violenza.
Malgrado ciò, l’acqua cristallina di fronte ai miei occhi sembra parlare una lingua corale, più semplice e più chiara: “there is something that doesn’t love a wall that sends the frozen ground swell under it“, c’è qualcosa che non ama il muro, c’è qualcosa di innato nell’universo, in quel magico e reciproco abbraccio dei due mari che non ammette né barriere, né l’auto-abnegazione.
Claudia Melcarne
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