La substance comestible est sans cœur précieux, sans force enfouie, sans secret vital

L’empire des signes, R. Barthes

Nella foto sul risvolto di copertina del suo ultimo romanzo Fame blu, Viola Di Grado è ritratta con le labbra dipinte di nero. L’effetto è quello delle dentature annerite con la china delle dame di quel Giappone arcaico, (quello dell’epoca Heian ma anche prima), le dame di quel Genji Monogatari che Viola Di Grado sa raccontare con malinconia (assolutamente necessaria) e grande intelligenza. Quelle donne si scurivano i denti (ohaguro) seguendo un rituale di passaggio all’età adulta, per mostrare il ceto a cui appartenevano ma anche per ragioni estetiche: copiare la bellezza degli oggetti neri lucidi di lacca. Ma quella di Viola Di Grado è soprattutto la citazione di una leggenda: il sorriso nero di una geisha bellissima che nell’oscurità della notte, nei pressi di un tempio, si trasforma, allargando la bocca e mostrando i denti anneriti, in una smorfia terribile, in uno spirito terribile ed affamato. Viola Di Grado ci sta mostrando già l’altro lato della bellezza: i fantasmi e le fantasie che ci portiamo dentro, in bocca, il fiore appassito, l’illusione della totalità, la poesia della sterilità.

A Shangai, dove si svolge la storia d’amore tra la voce narrante e una ragazza cinese, Xu (che suona come tu, l’altro che è sempre e comunque distante), nel distretto di Hongkou, si erige quello che è stato il più grande mattatoio dell’Asia Orientale. Un labirinto in stile art deco, costruito con cemento importato dall’Inghilterra. Oggi il1933 Old Millfun (questo è il suo nome) è un posto sinistro ma alla moda, la scenografia perfetta per una fotografia instagrammabile. È qui che in qualche modo è racchiuso questo romanzo, in questa scenografia di archeologia e stratificazione urbana dove una città si sostituisce ad un’altra, il piacere al dolore, le donne alle bestie, anche se in fondo niente è cambiato e stiamo continuando a macellare e sacrificare. E la razionalità, con le sue narrazioni lineari, si smentisce per ciò che è: anch’essa una perversione senza inizio né fine.

Vorrei provare a raccontare questo romanzo senza usare le immagini emorragiche con cui fin qui è stato descritto: corrosivo, relazione tossica, infernale, gotico (che uso nel senso di spettrale), morsi e cicatrici… Tutte queste parole sono forse contenute in questa storia e nell’universo letterario di Viola Di Grado. Sono lì quando entriamo assieme alla narratrice nell’appartamento di Xu e quella stanza dove si ameranno è piena di resti di cibo, alcuni marcescenti, ovunque, infilati, appiccicati, abbandonati tra altri oggetti e quasi se ne sente la puzza come nel caos del laboratorio del pittore inglese Francis Bacon. Eppure, vorrei provare a raccontare quel lato meno inquietante e meraviglioso della scrittura di Viola Di Grado, perché la bellezza di questa storia non sta nell’eccesso, nell’eccesso di una storia post-umana, post-verità, post-romatica, o post- moderna, nell’eccesso quasi mortale di una storia d’amore lesbica dove ci si ama mordendosi e l’unione è un segno indelebile, una lacrima, un rivolo di sangue, una crepa lungo una foto. Ma piuttosto in quella struggente vena di malinconia che l’attraversa: perché l’umanità sta sempre lì dove è sempre stata, prima di qualsiasi “post” o surrogato. Una malinconia che tocca il fondo mentre il fondo continua a replicarsi.

Lo spazio in cui si svolge questa storia, lo spazio tra i suoi protagonisti, non sta davvero nel morso o nella cicatrice, nel gesto o nel segno con cui si compie l’azione, ma nell’intervallo tra la fame, quella di Xu e la necessità di essere azzannata, quella della narratrice, scappata in Cina ad insegnare l’italiano; tra la fame della narratrice di conoscere le ferite di Xu, le cose che la fanno ancora “affogare” e la necessità di Xu di infilzare i denti e mangiare. In mezzo dove la narratrice sanguina ma senza accorgersene. Nella promessa di nutrimento, tra la promessa e la speranza, in una zona che non si completa nella bocca, sulla pelle o nell’udito, nel dare o nel ricevere, nel dominare e essere dominato, soffrire e far soffrire, ma sospesa sempre lì, in mezzo, prima del morso, che non calma la fame, prima del segno sulla pelle, che non fa male. Nello spazio della sopravvivenza, dove galleggiano frantumi di parole, di ricordi e di azioni, che restano sempre a metà, nel passaggio da me a te. Spazio della messa in scena che diventa quasi una perfomance. Spazio anestetizzato acronico di perdita del controllo e di tempo a cui abbiamo tutti diritto, diritto a non essere bravi a vivere la vita. Ma la perdita dell’auto-sorveglianza comporta necessariamente la resurrezione dei morti (di Ruben, fratello gemello della narratrice) e del passato (anche quello di probabili violenze domestiche sofferte da Xu). In mezzo, dove la compattezza si è perduta (la perdiamo continuamente) o non si è mai formata. Dove il senso cerca di completarsi, ma si trascina dietro un pezzo di vuoto. “Comunicare senza fine, oltre la carne, in cerca di qualcosa che non trovavamo mai”. Dove non abbiamo nomi (le protagoniste della storia si danno continuamente nomi nuovi, la narratrice usa a volte il nome del fratello, e comunque dichiara da subito la sua amnesia, “non ricordo più com’ero prima di incontrarla”), il linguaggio è quel “deserto che sta sotto le parole”, ed è lì che la scrittura scava. E il significato (anche della storia di ognuno di noi) deve essere anche assaggiato, morso, leccato per continuare a significare. Perché in fondo tutto ciò che è razionale si compie e si completa nell’irrazionale. Un luogo decentrato, dove, riprendendo le parole di Barthes, non c’è cuore, non c’è midollo, né energia vitale.

Shangai non è solo il girone infernale, la città apocalittica di una storia nera, una città doppia, la più tradizionale e la più europea, “candeggiata fino a diventare Europa”. Piuttosto, un fascio di luci artificiali, una luce al neon che si accende e si spegne anche sui bisogni intermittenti delle due amanti (“Xu appariva e spariva, e appariva, e spariva”, che sta lì al posto della luna o cola come inchiostro in una notte che non conosce il buio. Gli odori hanno tinte cineree e i colori non hanno colori né densità, ma sono veleni, liquidi, nevrosi e vibrazioni, perifrasi insolite. I sapori sono anaffettivi.  E nella luce blu che è l’ultima luce prima della notte e l’ultima prima dell’alba, quella di queste due amanti è una corsa a perdifiato, una specie di fuga in una terra di nessuno. Gallerie, corridoi, sotterranei, rampe, centri commerciali, una sfilza di negozi e bugigattoli, una sfilza di finestre illuminate, parchi, periferie, siepi, templi, oggetti, insetti, insetti fritti, grattaceli, giorni, notti, ore, discoteche, locali, ristoranti, insegne, scaffali, cibo, e ancora cibo, take-away, turisti, corpi si confondono e sovrappongono nella scia sfocata lasciata dalla corsa (e dal sogno).  Solo mentre corrono si danno la mano, “durante la corsa le presi la mano, d’istinto, e lei la tenne stretta, “percorrere è meglio di capire”; quando si fermano sono distanti, si fanno del male o si danno piacere ma tutto poi si sgretola.

Questo “diagramma di rapimento” (“via”, “vagina”, “Ogni punto sulla linea del tempo del mio amore per Xu”) trascina con sé parti del corpo che danno anche titolo ai capitoli del romanzo, dalla bocca alle mani. Ma non sono pezzi di un corpo mangiato e sminuzzato, parti di un corpo non amato, un copro che si costringe sempre ad occupare uno spazio (troppo piccolo o troppo grande), a fare entrare il mondo o a rifiutarlo. O non solo. Sono piuttosto “la verità delle viscere”, il nutrimento delle nostre fantasie (“Lì tutto era interiore. In quella città, in quel mattatoio”). Fino a quando la corsa si arresta perché l’ultima goccia è stata versata. E non c’è più niente da masticare.

Xu e la narratrice non sono colpevoli né innocenti, hanno solo alle loro spalle la vita che hanno vissuto, che a volte è anche dolore, dolore che si vomita o che si strozza gola. E quel desiderio così testardo ed umano di stare per sempre dentro l’atro “indigerita e protetta”. Quel desiderio lungo fino allo spasimo di toccare coloro che amiamo. Fame blu è la storia di un amore, di una forma di amore possibile, punto (omosessuale molto probabilmente, ma anche eterosessuale perché in fondo non sappiamo chi dei due fratelli gemelli sia vivo, chi morto, chi abbia preso il posto di chi). Di un supplizio e di un amore selvaggio perché nessuna delle due ha imparato come contenere la presenza o la mancanza dell’altro. A volte non lo impariamo. A volte abbiamo bisogno del dolore fisico, dei morsi, delle emozioni sulla pelle per impararlo.

Silvia Acierno

Vai alla tua libreria di fiducia o sul sito Bookdealer
Oppure compra su Amazon