Écrire commence seulement quand écrire est l’approche de ce point ou rien ne se révèle, où, au sien de la dissimulation, parler n’est encore que l’ombre de la parole.
L’espace littéraire, M. Blanchot
Nel suo saggio L’espace litteraire, lo scrittore e filosofo Maurice Blanchot scende nello spazio della scrittura dove il tempo è sospeso, tanto rarefatto da svuotarsi, smettere di correre e divorare, rapirci e asciugarci. Qui ci sarebbero solo inizi (quello che Blanchot chiama “le recommencement éternel”): un luogo di fascinazione dove le cose sono allo stato di immagini, allusioni, forme che si assottigliano fino a contorni attorno al vuoto. Uno spazio molto suggestivo dove le parole sono ancora solo ombre, formazioni disarticolate e disossate. Qui, finalmente, l’opera è (secondo una formula famosa) “la presenza di un’assenza”, testimone del deserto popolato, opaco e infinito che sta sotto il linguaggio.
Carmen Pellegrino, con il suo ultimo romanzo, La felicità degli altri, si muove in questo perimetro di ombre e solitudini, dando quasi volume alle parole di Blanchot, per attribuire però un senso diverso a questo vuoto. Daniela Brogi, autrice di Lo spazio delle donne, in dialettica con lo spazio letterario che Blanchot costruisce (purtroppo) su misura dell’opera di Kafka e di qualche altro autore (non menzionando neppure una scrittrice), fa emergere dall’ombra lo spazio delle donne (che è anche letterario) che non si strugge e immalinconisce in una dimensione stoica di renitenza, di buio, e assenze, rifugio poetico in mondi lontani dalla vita di tutti i giorni e dolori, ma è, molto più prosaicamente, puro vuoto. Una presenza assente.
Su una collina dove il vento sferza e l’estate si appoggia, c’è una casa, la “casa dei timidi”. È una casa di accoglienza, i cui proprietari, il Generale e Madame, sembrano gli ultimi a credere al genere umano, perché sono gli ultimi a credere nei bambini. A credere che nell’ultimo giorno, quando suoneranno le trombe, l’ultimo uomo che si salverà sarà un bambino abbandonato perché suo, solo suo è il paradiso (ritornando su quel messaggio universale che ci ha lasciato Elsa Morante nel Mondo salvato dai ragazzini). Due genitori senza figli naturali capaci di sentirsi ancora colpevoli per il destino di ogni singolo bambino: perché ad ogni singolo bambino che non ce la fa, l’umanità è annientata. Non parlava forse Cristo ai bambini, non erano forse loro i suoi messaggeri?
La protagonista, voce narrante, Cloe viene da una storia di abbandono. Crede di essere stata abbandonata dalla madre, una madre cattiva che vuole uccidere i suoi figli, come nella più terribile delle favole, una notte sulla pensilina della stazione ai piedi della collina, salvata dalle braccia possenti del Generale. Le cose, scopriremo, non sono andate proprio così. Ma non importa: questa è la sua verità, l’inizio di una serie patetica di verità ed identità fittizie per continuare a fuggire dal dolore. E quando una bambina è abbandonata, dove l’abbandono è l’ultimo atto di una storia sbagliata, di disamore, egoismo e vendette perverse, in una notte fredda e vuota, accanto a lei si materializza quel lupo che nella storia dell’umanità accorre a salvare e a nutrire con il suo latte; quel lupo che puzza di pelo bagnato, che è dentro di noi e che ci aiuta a correre anche quando ci hanno tolto il fiato. Come fa la vita a crescere quando non si hanno radici? È quello che si chiede continuamente Cloe. È la domanda imprescindibile che ci fa Carmen Pellegrino. Eppure, ci sono radici aeree. Eppure, anche le elefantesse senza quelle zanne necessarie per cercare acqua e cibo, sopravvivono.
Cloe si è staccata dal suo corpo: cammina ma non sente né i passi né la stanchezza. Le stagioni si avvicendano sulla collina, incendi dolosi, partenze e ritorni, eppure quel posto sembra fisso in una atmosfera rarefatta e ferma mentre il tempo scorre a fianco, e il mondo insegue e inscena una felicità costante. Tutto concentrato sulla sua stupida macchia di felicità. Abbiamo paura della parola vecchio. Abbiamo dimenticato i morti, non ascoltiamo più le loro voci, abbiamo cancellato la morte e allontanato le ombre. Non ci accorgiamo più di chi manca. È come se quel pugno di vita che è Cloe passi la sua forma chiusa e claustrofobica a tutto il resto, anche alla narrazione. La collina è avvolta da una luce acquietante. Il tempo non passa perché Cloe ha organizzato la sua vita in un cerchio, il suo perimetro è un cerchio, una messa in scena in cui rumina la colpa, l’unica capace di rassicurarla. E come se quella casa che ha radici come la sequoia nel giardino, appartenga ad un’altra dimensione, al moto dei corpi celesti (direbbe Ortese), in un ritmo di vita cosmica.
Nel suo saggio, Lo spazio delle donne, Daniela Brogi riassume in modo efficacie, brillante e ragionato secoli e secoli di patriarcato e cultura maschilista che, mattone dopo mattone, hanno svuotato lo spazio pubblico delle donne, aggiungendo sopraffazione a sopraffazione, fino a compromettere anche il nostro spazio interno, fino a farci credere che l’”incapacità” (quasi peggio dell’alterità, concetto perno nell’analisi di Simone De Beauvoir) coincidesse con il loro destino (“la cultura dello stress e dello scoraggiamento naturalizzato”). Fosse la nostra pelle. In un lungo discorso che va da una decisione sul mondo (a chi appartiene), passa per il corpo delle donne e finisce per diventare un destino. Brogi scrive una specie di timeline, una pagina e mezza, una sintesi precisa della nostra storia dal 1946 al 1996, che dovremmo sempre tenere a mente: la chiave di lettura per aprire le porte.
Lo spazio delle donne è un tempo perduto, irreversibilmente perduto; lo spazio che tutti gli esseri umani hanno diritto di occupare; è tutto lo spazio che è stato negato ma anche quello sghembo in cui le donne si sono collocate e adattate, anche rompendosi le ossa: nel recinto, in una stanza scura e oscurata, negli interstizi, in uno spazio rotto e scollato, in uno spazio “extraletterario”, non conforme. In questo spazio conquistato a fatica e provvisorio c’è coraggio, quello che ha portato il femminismo ad essere comunque uno dei movimenti più riusciti del Novecento, e c’è la solidarietà (con i deboli, i sopraffatti, con la lotta di classe, basta pensare a Fabrizia Ramondino, a Elsa Morante e anche ad Anna Maria Ortese), denunciando da sempre e vigorosamente ogni classismo.
Brogi vuole ricostruire uno spazio di senso inglobando tutto quello che è rimasto fuori, trasformando il fuori campo passivo in fuori campo attivo. Perché il quadro che abbiamo è menzognero: una parte è stata amputata, ma soprattutto non si è fatto ancora uno sforzo per “ricostruire il senso di questa assenza”. Che resta l’operazione essenziale (al di là di cancel culture o politically correct). E nessuna ridefinizione di equilibri (anche istituzionali) può avvenire senza tenere in conto che la storia fino a un tempo molto recente è stata cosa degli uomini. Che alla storia manchi un pezzo, anzi diversi, è chiaro. Le ragioni (la cultura patriarcale aveva ed ha ancora bisogno di una donna sottomessa) per cui quel pezzo manca sono anch’esse chiare. Che questo vuoto si stia riempendo in blocco, con storie di donne eccezionali, riscattandole di qua e di là, (operazione necessaria) è evidente. Ma bisogna restituire le vite e le opere di queste donne, scrittrici e non solo, alla storia da cui sono state estirpate o in cui sono state ostracizzate. “Lo spazio delle donne è lo spazio della storia”. E bisogna farlo con un linguaggio consapevole di tutte le volte in cui è stato riduttivo e beffardo, troppo confidenziale: una lunga ripetizione di frasi fatte.
Lo spazio delle donne è fatto anche di uno “stile” specifico o quantomeno ricorrente, dove stile non è il rovescio di contenuto, ma un sinonimo, visto che il contenuto, la vita, si trasforma in linguaggio artistico e il linguaggio a sua volta ricrea un contenuto, un tema. È uno stile caratterizzato da un’apertura naturale alla sperimentazione, alla fusione dei generi (pensiamo all’invenzione della biofiction e alla più recente autofiction), all’ibrido; opere ricucite, ritagliate, frammentarie, andirivieni e dissonanti, a colpi di strappo e silenzio. Brogi offre molti esempi di questo linguaggio, da Flush di Virginia Woolf al cinema di Agnès Varda. In una parola, destrutturare: esplosione necessaria di quella gabbia, del canone e dei modelli di rappresentazione artistica tradizionali per liberare spazio e ricominciare daccapo. Per dar voce attraverso la parola e il linguaggio espressivo ad un sé meno monolitico, molto autocritico, pieno di possibilità.
Ma Brogi cerca soprattutto di dirci un’altra cosa: lasciamo quel vuoto, non lo riempiamo. Osserviamolo attentamente, e, mentre lo osserviamo, facciamo uno sforzo per legarlo, laccio a laccio, al telaio che sta intorno. “Ricostruiamo il senso della sua assenza”.
Su questo vuoto lavora Pellegrino. Anzitutto lo guarda, come dovremmo fare tutti noi. Guarda (e ricuce sul suo personaggio, Cloe) quella membrana in cui ci avvolgiamo per non essere visti. Attraverso questa storia, parlando di infanzia, di madri che non vogliono avere figli ma li hanno comunque, di madri che credono che i loro mariti le abbiano abbandonate proprio per quel “malodore di mamma” (come lo definisce Elena Ferrante), e di padri che abbandonano la famiglia e la feriscono ma fanno finta di niente, Pellegrino racconta anche quel buco che ci portiamo dentro, quello spazio arcaico e cieco depositato da qualche parte dentro di noi, che si riattiva in alcuni momenti della nostra esperienza. La storia di Cloe è quella di una donna che esce dallo spazio di senso in cui ci autoconfiniamo.
Sul vuoto lavora Pellegrino nel suo romanzo (lo aveva già fatto nei precedenti). Su un vuoto che non è mai vuoto ma è fatto di macerie, resti e di ombre. Restare nell’ombra (spesso di un uomo come raccontano i cliché) è stato il destino delle donne, il loro spazio quasi naturale. Pellegrino recupera l’ombra, come condizione attiva, come una chiave di senso. Come la condizione necessaria per aprirsi all’altro. Lo spazio delle donne è anche quello da cui si osserva la felicità degli altri. Perché questo spazio delle donne è per vocazione uno spazio di osservazione.
Il vuoto diventa anche una specie di dimensione della parola e della narrazione: sin dall’orcia all’ingresso di questa casa infestata in cui la voce narrante si rifugia, si rimpicciolisce, prima di poter davvero lasciare lì dentro solo quella piccola figurina di sé. Ma non solo. Lo stesso romanzo (e la memoria) appare come una specie di scavo, dove tutto (tutto quello che è accaduto) è alla luce; ora bisogna solo scegliere se rimettere a posto gli elementi ritrovati, o seppellire di nuovo tutto perché conservare quei resti sarebbe impossibile. La narratrice ci avvisa da subito che la sua è la storia di un’anastilosi: di una ricostruzione. Ma soprattutto perché alla fine, attraverso la storia e la narrazione, prenderà coscienza di quella parte delle rovine che sono andate perse, o devono comunque essere seppellite e dei danni che ogni ricomposizione porta con sé. Le parole vengono dall’ombra, e lo spazio sta dall’altro lato, emerge grazie all’ombra che gli sta attorno.
Pellegrino con la sua storia, si muove nel “fuori campo attivo”, che non deve essere solo uno strumento di analisi e comprensione ma deve farsi anche narrativa: una narrativa in cui il gesto essenziale è spostare lo sguardo, pensare a nuove architetture. E riappropriarsi di quei mondi simbolici che il linguaggio e la cultura patriarcale hanno contaminato.
Lo spazio delle donne è lo spazio in cui siamo state occultate e quel nuovo spazio inclusivo in cui dovremmo esserci non come aggiunte ma come parte di una riscrittura consapevole di quello che è stato. In una nuova visione in cui si vede la fotografia, quello che sta davanti ma anche tutto il resto, il fuori campo, quello da cui veniamo, e che ci portiamo dentro.
Silvia Acierno
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