since to such people even in earliest childhood any turn in the wheel of sensation has the power to crystallise and transfix the moment upon which its gloom or radiance rests

V. Woolf, To the lighthouse

Fabrizia Ramondino è una grande scrittrice del secondo novecento anche se pochi la ricordano, anche se non tutti i suoi romanzi sono stati ristampati (per Fazi è uscito Guerra d’infanzia e di Spagna con la prefazione di Nadia Terranova). Alcuni bisogna avere la fortuna di trovarli in una libreria di seconda mano, se non si ha già quella di avere ereditato una biblioteca di famiglia completa. Del resto, cercare i suoi romanzi sulle bancarelle, tra libri d’occasione non stonerebbe poi tanto visto che lei fu anche una militante politica e pedagogica in quella Napoli malata di colera, quella dei vicoli, negli anni sessanta e poi settanta, tra la periferia, l’analfabetismo e la disoccupazione (Napoli. I disoccupati organizzati, L’isola dei bambini e poi Passaggio a Trieste). Quella Napoli che fu risucchiata dal terremoto degli anni ottanta, con i nuovi camorristi e lo spaccio, quando Ramondino decise di andarsene. La Napoli delle librerie di San Biagio dei Librai e di Port’Alba, vani umidi e ingialliti come le pagine dei libri. Dal 1991 al 2015 si succedono alcuni contributi e interviste, alcuni atti di convegni di italianisti, molti pubblicati in lingua inglese su riviste angloamericane. Una bibliografia di poco più di una pagina e una rampa di scale a Napoli in suo onore. Poca cosa che dice quanto siamo interessati alla storia della nostra letteratura. Ramondino è raccontata come “la signora di Son Batle”, musa della memoria, un nuovo Proust (anche se Proust non è solo memoria e Ramondino è molto altro), un’autrice “napoletana” (cosa che non si dice di Elena Ferrante, e contro la quale Ramondino promosse una specie di manifesto sull’Indice), una scrittrice “etnica”, autrice di romanzi che stanno in un posto imprecisato tra romanzo, autobiografia, diario, saggio (per fortuna).

È come se Fabrizia Ramondino appartenesse sempre a due mondi, ognuno insufficiente a contenerla. Sicuramente anche più di due mondi. Napoli e l’Europa: la Spagna di cui parlava segretamente il catalano con la balia, la Francia di cui imparò la lingua che poi insegnò nel nord Italia, e la Germania, prima Berlino, poi quella in cui andava a trovare la figlia, avuta fuori del matrimonio, ballerina nella compagnia di Pina Bausch. Tra l’isola dei bambini e il continente degli adulti. Tra la piazza e le ville. Tra il sorriso pieno e l’infelicità, quella profonda della dipendenza dall’alcol. Tra due lingue: l’italiano, parlato dalla famiglia alto borghese, e il napoletano; lo spagnolo e il catalano, represso dal franchismo e parlato solo dai servi. Tra sogno e realtà. Tra la figura femminile tradizionale e la donna che non si identifica con quella figura ma di cui porta le ferite. C’è la Ramondino figlia di un diplomatico napoletano, orientalista, che si trasferisce da bambina a Mallorca. Ma c’è anche la bambina che rientra in Campania e comincia un periodo incerto a Santa Maria di Massa Lubrense, sfollata assieme alla madre, alla nonna materna e ai fratelli. Tra la madre, la nobile Pia Mosca e la balia Dida, quella che le diede la tenerezza che la madre, per una questione di classe d’ appartenenza, doveva ritirare e che nonostante le braccia immense di Dida, le è mancata comunque. C’è la ragazza che si trasferisce in Francia, a Chambéry, sempre per la carriera del padre prima che tutto finisca di nuovo con l’improvvisa morte del padre e che cominci un nuovo periodo incerto. C’è la donna che sposò in un’unione civile un aristocratico napoletano e abitava in un palazzo nobile, il palazzo Spinelli a via dei Tribunali. Ma poi c’è l’amica di Goffredo Fofi: la donna che entra nelle case e nella miseria dei disoccupati e insegna a leggere e a scrivere ai bambini, ai figli di quei disoccupati in un basso tra i vicoli spagnoli di quella Napoli sempre uguale a se stessa, la donna che fonda il Centro per il Risveglio di Napoli, dove il suo destino si incrocia con quello di Carlo Cirillo, e con Elsa Morante. C’è la donna che scrive taccuini di viaggio ma su quei taccuini annota assieme alla sua anche la disperazione delle donne ricoverate nel centro di salute mentale per donne fondato a Trieste da Assunta Signorelli, psichiatra, collaboratrice di Basaglia (Passaggio a Trieste, altro libro bellissimo, stampato da Einaudi nel 2000).

La donna che finalmente si rifugia ad Itri tra la valle e il mare di Gaeta, in una casina del centro storico con la terrazza e gli amici che accoglieva con un grande senso dell’ospitalità, con le opinioni schiette, rigorose e le fragranti risate. Nel 2008 era ad Itri, in una casa che quell’anno aveva deciso di affittare sulla piana di Sant’Agostino per scrivere sul mare, un piccolo bagno di dieci minuti appena sveglia, poi dopo pranzo, poi l’ultimo in serata e di nuovo a scrivere . Lì sul mare, il mare verso cui corrono le pagine del suo primo romanzo, Althénopis, dopo una nuotata, si è accasciata sulla spiaggia mentre in casa l’amica che le faceva da segretaria, l’aspettava e il caffe bruciava. Sulla riva come Amalia dell’Amore molesto, il film di Martone con cui aveva scritto anche la sceneggiatura di Morte di un matematico napoletano (1992), e l’opera teatrale Terremoto con madre e figlia (1994), e a cui aveva segnalato quel primo romanzo di Elena Ferrante.

Ad unire questi mondi, c’è in qualche modo la via (La Via, Einaudi, 2008): “quella per cui sono passate tutte le anime, perché fino a quando ci sono vita e memoria, ci sono anime”. Ma passa anche la lingua, non quella che aiuta a trovare “un” senso, ma quella che “mette assieme” tutte le altre, dialetti compresi, che ovviamente non esistono singolarmente, “la lingua che crea il mondo” (scrive Nadia Terranova). La lingua come una specie di resa: conoscere tutti i fiori ma non sapergli dare per forza un nome. Poi alcune parole irrinunciabili: immondezza, guantiera, sperlonga, lastrico, ruoto, per citarne solo alcune, che prima di essere derivate dal dialetto, sono soprattutto quelle che si avvicinano di più alle cose. Un passaggio. Il montaggio di parole dette da altri, dalle donne del centro di salute mentale di Trieste. Un filo sottile in un labirinto imponente (che rappresenta anche la gabbia patriarcale, quella dov’è rinchiuso il minotauro). Qualcosa che possiamo in fondo solo attraversare.

Althénopis (Einaudi 2016) è il suo primo romanzo. Lo pubblica a quarantacinque anni: la madre, la nonna e il padre sono tutti morti. La storia familiare si è già compiuta. In qualche modo Ramondino comincia il suo racconto da dopo, dopo l’infanzia a Mallorca, dove il padre era stato destinato come console (che racconterà solo molto più tardi in Guerra d’infanzia e di Spagna, nel 2001). Come se quell’isola incantata, assieme al tempo delle consolazioni, fosse troppo lontana o dovesse essere tenuta lontano perché sotto la meraviglia c’era un germe di felicità e di infelicità, che faceva ancora troppo male. Ancora troppo conficcata per poter essere raccontata a se stessa e agli altri. Come se bisognasse voltargli le spalle. Come se la vita cominciasse da dopo, dal rientro in Italia, sulla penisola sorrentina. Da dopo la fine dell’infanzia, con la decadenza sociale ed economica della famiglia, e potesse essere raccontata solo a partire da quella infanzia oramai alle porte dell’adolescenza, in cui Ramondino ha già sperimentato il distacco, che poi continuerà a replicare.

La continuità con il prima è rappresentata dalla nonna con le gonne lunghe attorno a cui si condensano profumi diversi e dietro cui la bambina si nasconde. La nonna che atterrava sull’isola di Mallorca, da cui Fabrizia era incantata e che, in realtà, era un consesso, una schiera di donne: le cinque sorelle, belle e toste, che continuavano ad essere eleganti anche se le rendite si riducevano sempre di più, con il filo di perle sui merletti rammendati e a cena il pancotto e i fichi secchi.

 La scrittura di Ramondino, sicuramente in Althénopis e poi in Guerra d’infanzia e di Spagna-e assieme alla scrittura, la memoria- si costruisce a partire dalla casa e dalla geometria limitrofa. Ce lo ricorda anche Sandra Petrignani in Lessico femminile a proposito di un altro romanzo di Ramondino, Star di casa, (Garzanti, 1991). Eppure la casa non è solo quello spazio che si apre -anche se mai del tutto- come una conchiglia (scrive Ramondino “l’impressione di vivere all’interno di una grande conchiglia”) o che si apre lasciando dietro un involucro floscio e vuoto, come una crisalide (parola che compare nella descrizione della casa di To the lighthouse di Virginia Woolf). Non è solo metafora dell’anima femminile, la lista delle cose che forse solo una donna noterebbe oppure no. È piuttosto il luogo dell’infanzia, e quindi della richiesta d’amore incondizionato, delle voci familiari ed estranee. È un centro, ma nel senso di focolaio della memoria, radice prima dello sradicamento, attorno a cui si aggregano le emozioni e la struttura narrativa.

In Althénopis la casa è un buco per la madre (abituata alla villa di Son Batle e al palazzo napoletano), è un nido per il padre (proprio quando la coppia è disgiunta, lui è a Napoli e forse l’amore coniugale non c’è più), è la casarella per la nonna (perché la nonna è sempre accomodante). Per Fabrizia è una parola che contiene tutte quelle altre. Nel centro, nella casa più piccola, c’è una madre che non costituisce davvero un centro, perché la sua figura si sdoppia continuamente: la madre ma anche il sostegno della nonna; la madre e le cure di Dida, la balia spagnola, che qui appare fugacemente come la balia di Porto Quí. La presenza-assenza della madre, oltre ad essere una necessità per le donne di quel ceto sociale, viene da prima, perché già la madre di Ramondino passava solo una parte dell’anno con la sua di madre. Doppia è anche la natura di questa donna, minerale e sanguigna. Due madri dunque quella del ceto a cui appartiene, del ruolo sociale tra ricevimenti ed emicranie, ed una lontana, una madre bambina, quella che Ramondino sembra inseguire nelle pagine di Althénopis: la madre dell’autunno e dell’inverno che porta Fabrizia e i suoi fratelli nei boschi di Massa Lubrense, quella che sa accudirli, ma solo nelle situazioni di emergenza, come ora a Massa Lubrense. O piuttosto Ramondino sembra seguire sbigottita il ritorno schizofrenico della madre che d’estate si ritira nel fresco degli interni, con la pezza d’aceto sulla fronte, lontana dal sole e dalla giovinezza. E in questa madre c’è sempre qualcosa che stona tra il biancore del corpo e il rossetto sulle labbra che era come un gesto di arroganza, tra il biancore del corpo e il rossore delle guance avvampate dall’ira.

Quando sono soli, la madre frigge le patatine ma poi, in presenza del marito, si trasforma. Quando arriva il padre, le parole del dialetto si fermano in bocca, il cibo, stufato invece che fritto, è il linguaggio degli umori, e le riviste con i fotoromanzi sono sguardi di rimprovero. La madre diventa così quella figura decorativa e incomprensibile che sta lì per temperare gli insegnamenti del marito. Che poi è solo la versione borghese e civilizzata di quello che facevano le donne povere, madri degli amici di strada di Fabrizia in quegli anni: ingoiare il boccone prelibato che il marito gli cacciava nella bocca sdentata. Comunque la stessa violenza.

Fuori della casa, c’è un paesaggio in movimento che salta da un dettaglio ad un altro, dalla luce del sole all’ombra del bosco. Ed è come seguendo questi salti che il romanzo si costruisce. Dalla casa alla piazza con i suoi giorni di festa, le luminarie e le processioni, i giovanotti e le ragazze innamorate e tragicamente sedotte. Da un lastrico ad un altro. Dalla piazza al convento, al cimitero, alle  pezze di terreno, che sono piccoli eden segreti, alle ville. Tutto a rotta di collo verso la marina e i suoi anfratti. Ed di ogni luogo sembra che ci sia una specie di custode, sempre strambo, come gli adulti ci appaiano nella maggior parte dei casi da bambini: la signorina Luisa, la maestra del nord nel convento, la pastora violentata nella selva, la casa dello zio Alceste, figlio della sorella della nonna, con le sue stanze proibite e i suoi segreti, la donna con l’amante nella casa sulla strada di Metamunno, il cugino Achille, tornato dalla guerra.

Ramondino sembra rincorrere tutto con un eccesso di vitalità che finisce per consumarsi in quei capricci tremendi, che degradano nel pianto e poi nel sonno, quando la madre spazientita, la sgridava, la picchiava e finalmente la rinchiudeva con le galline sulla loggia.

La memoria insegue se stessa, di scoglio in scoglio, ad ritmo segreto, come sonnambula “guai vi fosse stato un grido di ammonimento o di richiamo; saremmo caduti, usciti dal cerchio magico”. Poi la corsa si arresta di fronte ai segni premonitori del prossimo distacco, di una nuova partenza, qualcosa che sta per accadere mischiato alla morte, alla crescita e alle frasi grottesche gridate dai padri sulla marina che si è affollata di nuovo:  “Chi comanda sono io”. “La mamma ci annunciò che alla fine dell’estate saremmo partiti per la Capitale, e poi per una città della Francia dove mio padre era stato destinato”.

Dentro come una regina addormentata, mentre Fabrizia esplora e salta di pezza in pezza, c’è la madre. E quando Fabrizia grida non voglio andarmene, la madre invece spalanca le finestre, e, in piena ebollizione, si prepara a vivere di nuovo. Si aprono gli armadi e i bauli per rifare il guardaroba ai bambini e si solleva l’incerata a quel tailleur elegante, da salotto bene, per raggiungere il marito, funzionario del ministero degli esteri, verso un’altra città.

Cosa c’è dietro? In quella stanza con le imposte accostate, c’è un segreto femminile, racchiuso nel percorso di fragilità che ha fatto della madre di Ramondino (e di molte di quelle donne) un corpo sigillato: dalla ragazzina che respirava a pieni polmoni l’aria del bosco, passando per la donna appena sposata, fino alla madre che aspetta il marito lontano, poi la giovane vedova, e infine l’anziana malata. È un segreto legato all’eros di sua madre, da cui la bambina scappa riottosa per correre di nuovo lì. Il segreto che la madre non riusciva a raccontarle, quel tipo di segreto verso cui le figlie hanno una speciale sensibilità: forse, essere stata innamorata, follemente innamorata, di un altro uomo, prima del padre. Quell’uomo era Elio Gianturco, scrittore e traduttore che lasciò Pia Mosca e se ne andò in Argentina. In Althénopis e in Guerra di Spagna questo segreto con la sua carica magnetica è oscuro, insospettabile. È qualcosa a cui Ramondino non riesce ad avvicinarsi nemmeno con le parole. È un segreto banale (questo o qualsiasi altro fosse), così banale eppure proprio perché taciuto finisce per diventare quel ponte  attraverso il quale percepiamo ciò che siamo, quello che ci manca e come potremmo essere.

Quello che arriva dopo, quello che Ramondino racconta dopo, non è la partenza per Chambéry e gli anni trascorsi in Francia. A questo punto Ramondino fa un salto: a quell’altra condizione di incertezza e povertà ancora più profonda di quella sperimentata a Massa Lubrense, che pure era stato un anno felice. Ci racconta quello che accadde dopo la morte improvvisa del padre. Ritornano le case, e il racconto che si organizza attorno ad esse: le case delle zie, sorelle e cugine della madre dove Fabrizia, la sorellina, il fratello e la loro madre abitarono, assieme o divisi, dopo il lutto. Attraversare quelle case e i loro corridoi, con le porte chiuse o spalancate, è come soffermarsi su tutti quei dettagli in cui si consumava o trasformava la classe sociale di quella “Napoli bene” a cui apparteneva Ramondino, tra l’ottusa mondanità dei salotti e un estro che sembra appartenere alla famiglia materna di Ramondino.

Quando arrivano a Frasca, nella casa che uno zio gli ha messo a disposizione, Ramondino ha già il corpo di una donna. “Ma c’era qualcosa in quel mio corpo che, man mano che crescevo, rimpiccioliva”. Quella cosa è sospesa tra l’impressione che si stia consumando e quella opposta di una crescita miracolosa. Una “vida”, “videcita” che cresce ma in qualche modo soffocata come dentro una bottiglia. Ed è come se la crescita subisca ad un certo punto una specie di accelerazione. Così Fabrizia lascia la madre e parte per il Nord.

Poi l’ultimo salto per raccontare infine il ritorno della scrittrice nella casa materna. Un ritorno che è scritto in una terza persona che la trasforma oramai in “La Figlia”. Sua madre è “la Madre” e il padre solo “Lui”. Il mutamento è avvenuto in un batter d’occhio, “al suono dell’ultima tromba”. “La Madre sino allora aveva portato la Figlia nel suo ventre, da allora la Figlia cominciò a portare la Madre sulle spalle”. La casa finalmente è una, ha smesso di essere un periplo, “la casa di tante case era la perfetta Maniera”. Ma in quella casa ripulita e riappropriata, Fabrizia ha bisogno di ricreare l’altra, quella provvisoria, quella a cui si è abituata, quella dei presagi della partenza, “un angolo di cose sporche”. Tutto avviene in poche righe: la violenza della madre nel rinfacciare alla figlia la sua sconfitta, “Ora che hai dimostrato di non saper lavorare, impara almeno a cucinare”. Ma anche, Nonostante la violenza, l’amore materno, quello sordo. L’arroganza della figlia, che sbatte in faccia alla madre il suo corpo giovane e perfetto, mentre continua ad ubbidirgli, nonostante la violenza. Due destini che si separano, che non possono coesistere fino al punto in cui il destino della figlia implica la scomparsa della Madre, tra quei mobili che, di trasloco in trascolo, sono oramai solo l’ombra ostinata di sé stessi. L’anello mancante, il gancio che ci rende estranei, anche una madre e una figlia, quello che manca o che, come Ramondino, si costruirà dopo, molto dopo, dolorosamente.

Oramai della famiglia restano sono le stanze, il salotto, il bagno, la camera da letto. Atomi di una trasformazione della casa che da trampolino verso l’esterno, si è fatta passaggio di case, fino ad essere uno spazio claustrofobico in cui come i resti di un naufragio vagano stanze e mobili. Mobili e argenterie che, anche se furono venduti a peso, uno alla volta, continuano ad appartenere a Ramondino. Perché è come se non bisognasse disfarsi di loro, ma dovessero essere quelle cose (che erano solo la forma di un ossessione) a lasciare lei.

Sotto la lente del ricordo, gli oggetti diventano sempre più insignificanti e personali: le forbici, gli occhiali, le chiavi, il colletto di pizzo, il collo di visone, la spilla sugli abiti dimessi della madre. E tutto quel mondo è risucchiato lì, in quel punto: la madre invecchiata sola in cucina su un piatto sbeccato. Immagine che mi rimanda all’immagine di un’altra madre disfatta nella sua cucina, quella di Chantal Akerman, altra nomade come Ramondino (No home movie).

Resta, alla fine, dopo tutto e dopo la morte, un gesto: la madre moribonda che si tocca il pube. È una scena indimenticabile. Mentre tutte le donne zie e parenti che si affannano attorno al corpo smemorato e moribondo, cercano di occultare (ancora, fino alla fine), con quel non si fa, togli la mano da lì, non toccarti. Ramondino ce lo consegna ancora e ancora, l’ha visto per quello che era, autentico in tutta la sua insensata melancolia e non è riuscita più a toglierselo dagli occhi e dall’anima, un memento mori: “togliere il divieto, e fecondarla (l’anima) affinché vedessero la luce altri nati di donna”. Il divieto sul corpo della donna. È arrivato il tempo della comprensione.

Perché io custodisco l’immagine della tua infanzia ma quando tu verrai da me sarai un’altra e quell’immagine si sarà sbiadita.

Silvia Acierno