Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre.
José Saramago

Tornare a casa significa per molti non solo riappropriarsi dei luoghi sommersi dell’infanzia ma anche attivare un meccanismo di riflessione e bilancio con sé stessi (e di sé stessi), osservando chi siamo stati e, al contempo, chi siamo diventati. La letteratura, già dall’Odissea, non ha mai smesso di condividere con noi questo tema. Attraverso le sue pagine ci parla di esperienza, identità, ricerca e memoria, geografie e geometrie esistenziali. Può configurarsi o come un ritornare al rassicurante sentiero del già noto che conduce, senza sorprese, alla vita di un tempo o costringere alla resa dei conti che trasforma il tempo perduto in un imprevedibile altrove rispetto al quale cerchiamo il nostro posto. Senza rinunciare con questo all’emozione che accompagna ogni ritorno, quando il nostro sguardo si sofferma su un luogo, una parola, una scritta, un gesto che diventano subito presente e riaffiorano dal serbatoio della memoria. Nelle prossime righe presenteremo quattro casi di ritorni nella letteratura di ieri e di oggi che sono anche un’occasione preziosa per rifrangere le vicende biografiche dei loro autori.

Ne La luna e i falò di Cesare Pavese, pubblicato nel 1950, c’è Anguilla che arriva dal mare, dall’America, dall’altrove. Ha i soldi scritti in faccia e chiusi nelle tasche ma è privo di quella realizzazione che ha cercato oltreoceano. Il suo ritorno a casa dopo vent’anni nelle Langhe, dalle quali è fuggito nel momento più acuto della guerra, è incalzato dalla ricerca di una realtà prima dopo una brusca cesura ma anche di mitigare il senso di colpa di chi era lontano mentre tra quelle colline si sparava e si moriva. Sa che per tutti un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via, per non sentirsi soli e per sapere che, anche quando non ci sei, resta ad aspettarti. Come sa, sottraendosi alle seducenti attrattive dei ricordi perché la vita gli ha affinato lo sguardo, che siamo noi, alla fine, con il nostro farci esperienza, il paese di noi stessi. Anguilla, con quel soprannome che rimanda ad un errare inquieto che presto lo porterà verso altri mari, mostra tuttavia un bisogno dialettico con chi è rimasto, con chi ha messo radici nelle Langhe, colmando le sue lacune sul passato e aprendogli gli occhi sul presente. C’è la vecchia generazione, il caro Nuto, l’amico di un tempo, che ha visto quelle colline infiammarsi e spegnersi e che, durante la guerra partigiana, in qualche modo ha agito ma non ne parla volentieri. C’è la nuova generazione, il piccolo Cinto, un giovane contadino che come lui è stato povero, dileggiato (uno perché orfano, l’altro perché malformato), che con la sua zoppia sembra alludere ad una instabilità che attende quei luoghi. Ma non ci sono più la luna che incide sugli arbusti tagliati e gli innesti e i falò di San Giovanni che svegliano la terra per un raccolto più vivace, i punti cardinali di una cultura contadina oramai passata. Al loro posto campeggiano un astro che osserva immobile gente che parla e straparla, che non ha agito quando avrebbe dovuto o che ha rischiato la pelle ma si trincera nel silenzio e fiamme che sono quelle delle prediche violente dai pulpiti contro il nuovo nemico rosso, dell’incendio del casolare dove Anguilla è nato che distrugge le ultime tracce del suo passato o dell’autodafé di una doppiogiochista durante la guerra sepolta sotto il sarmento di vigna bagnato di benzina. Tornare a casa significa affrontare un presente inquieto e ostile dove gran parte del ‘come eravamo’ viene a mancare e confermare le ragioni dell’abbandono con una nuova fuga o, nel caso di Pavese, la grande pagina bianca del non vivere più. Ora spostiamoci un po’ più a Nord e arretriamo agli anni del fascismo, quando la stazione di Milano era tappezzata da manifesti che inneggiavano alla guerra civile spagnola.

In Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, pubblicato nel 1941, una lettera inaspettata sembra donare nitidezza, quindi senso, alla vita sbiadita a Milano di Silvestro, giovane tipografo emigrato che come tanti stampa di sé solo più indolenza. È il riscatto di chi si arrovella ma in silenzio per un mondo perduto, di chi non ha più voglia di accontentarsi della quiete della non speranza. Comincia così un viaggio verso Sud fuori dalla palude in cui è impelagata l’Italia fascista, una discesa junghiana verso il grembo di una madre da consolare e una Sicilia natia abbandonata da decenni. Il ritorno a casa è scandito dalle conversazioni con chi ogni giorno respira quella terra che, una volta riscoperta e compresa nel suo oggi, per quanto stentato e stantio, si rivela paradigmatica di un nuovo inizio per chi ha perso la memoria di chi si è e di cosa si è fatto. Dribblando abilmente la censura, Vittorini non si affida al realismo perché tutto il narrato è sfumato nel simbolo, da quarta dimensione, quasi onirica, dove la letteratura si fa protesta e possibilità. Mentre Anguilla di Pavese si ritrae disilluso da un mondo che non riconosce più, Silvestro più incontra tipi umani con la loro forte carica allusiva e latori di messaggi, dai più comuni ai più stravaganti, più riscopre la parte migliore di sé, quella che ora sa che può dire senza dichiarare apertamente. La parola è quindi l’elemento che lo strappa all’afasia e gli impone un compito nuovo e difficile da riportare al Nord, come gli ricorda il Gran Lombardo incontrato in treno: non limitarsi ai propri doveri privati ma assumerne di nuovi, da condividere, con autentica soggettività. E così alza la testa. Ma la vera spinta arriva dalla madre Concezione che, con pacata serenità, ha trovato il suo posto nel mondo, reiventandosi sempre e diventando un punto di riferimento, sia come infermiera sia come consolatrice, per la piccola comunità dell’entroterra siciliano. Nel suo giro dantesco negli antri oscuri dove molti vivono porta con sé il figlio ritrovato alla scoperta-riscoperta della povertà e delle forze telluriche di un mondo primigenio. Silvestro conversa anche con altre ideologie, sempre mascherate da allegoria, contrapposte al fascismo, come il marxismo dell’arrotino, la filosofia consolatoria del sellaio, il cattolicesimo del venditore di stoffe o l’asservimento del bottegaio, ma esse sono forze che possono alleviare e non guarire un’umanità offesa, per questo si allontana e, prima di occuparsi dell’aldiquà, tornando a Milano con una maggiore consapevolezza di sé, c’è ancora una conversazione con l’aldilà.

Il tema del nostos tocca anche romanzi più recenti della letteratura straniera. In Tornare a casa (Mittagsstunde, 2018) di Dörte Hansen, pubblicato da Fazi Editore nel 2020 nella traduzione dal tedesco di Teresa Ciuffoletti, cento chilometri separano l’università di Kiel, dove Ingwer, il protagonista, insegna preistoria e la locanda nella Frisia, estremo nord della Germania, dove una volta era il ragazzetto che spillava birra per i clienti. E forse lo è tuttora. Trent’anni lo separano da quella terra ruvida e logora, schiaffeggiata dal vento e dalla pioggia che viene quasi voglia di consolare e alla quale si sente legato perché lo ha levigato. Se ne è allontanato ma poi, come Anguilla e Silvestro, è ritornato per fare la tara di sé stesso in una continua tensione tra il destino già scritto e il desiderio di ciò che si è perduto. Sono pagine, quelle della Hansen, radicate nel caldo laccio della vita rurale senza cadere nell’idillio e nel senso di gratitudine per le persone che hanno abitato quelle terre e a cui siamo debitori per ciò che siamo oggi. Per Ingwer, che non ama i voli ad alta quota perché è la terra il suo elemento, tornare a casa significa archeologia, prendersi cura innanzitutto del vecchio e studiarlo, dei propri nonni che gli hanno fatto da genitori e del passato e osservare l’assalto della ricomposizione fondiaria. Ma anche frugare dentro di sé, rovistare su fondi polverosi, riscoprire vecchie parole in basso tedesco. Il suo curriculum riporta due deliberate voltate di spalle: prima alla tradizione familiare dell’homo ruralis, all’etica del lavoro immersa nella natura e alla gestione della locanda, un tempo luogo di incontro della comunità, dove i nonni ancora operano, per intraprendere la carriera universitaria in città, un po’ come il protagonista del prossimo testo che vedremo; poi ad una convivenza indolente a tre in città con un figlio bamboccione di un giudice e la figlia annoiata di un diplomatico, ad una vita di agi e di rendite, di fronte alla quale si è sempre sentito un impostore. Perché in fondo sa da dove proviene e il ritorno in Frisia diventa bisogno di autenticità e semplicità accanto a persone con le quali non occorre recitare uno dei tanti copioni che la vita ci impone. Ingwer si rivede nei vecchi ippocastani che hanno conficcato le radici nell’asfalto spaccando il manto stradale e resistendo, a loro modo, alla modernità. Anguilla le noterebbe subito insieme ai pannelli fotovoltaici che tappezzano i campi come grandi scrivanie luminose, volgendo subito dopo lo sguardo altrove, a dove quel manto stradale può condurlo lontano, Silvestro si soffermerebbe e apprezzerebbe quella tenace forza di resistenza che la natura offre per trarne ispirazione. Questo professore di archeologia non è solo in questa operazione di scavo per capire e capirsi. C’è anche un suo collega di scienze umane e sociali che come lui viene dalla provincia.

In Ritorno a Reims (Retour à Reíms, 2009) di Didier Eribon, pubblicato da Bompiani Editore nel 2017 nella traduzione dal francese di Annalisa Romani, l’io autobiografico fugge da giovane da Reims, da un contesto operaio, ma soprattutto virilista e omofobo, verso Parigi, con i suoi fermenti culturali e gli orizzonti più ampi, per produrre un altro sé, più autentico, e nutrire la propria diversità senza la simulazione. La sua identità ‘guasta’ e quindi negata lascia il luogo del costante insulto per essere altrimenti, per essere un differente da quelli da cui differisce, diventando un intellettuale legittimato. Ritorna dopo decenni, complice la scomparsa del padre mai amato, e si confronta, non senza difficoltà, con quell’humus sociale che aveva allontanato e mentale in opposizione al quale si era ricostruito, ma che lo ha inseguito e incalzato come Erinni senza sosta. Tuttavia se un tempo emancipazione era anche amputazione, il ritrovo della madre e i dialoghi con lei producono un effetto terapeutico perché qualcosa in lui comincia a ripararsi, con una lenta messa a fuoco. Interroga ora quell’estrema provincia francese e ridefinisce il concetto di disertore, già presente in Annie Ernaux, nel quale si trovava prima incasellato, ma che ora rimanda al mittente ritrovando un ceto operaio che si volta all’estrema destra e si lascia spossessare da presunti portavoce che non parlano per loro ma al loro posto. Ritornare a casa significa per chi ha sempre affrontato nei propri scritti la tematica della sua omosessualità dedicarsi ad un nuovo argomento, parimenti autobiografico, rimasto sempre sulle labbra, ossia spalancare il proprio armadio sociale delle origini per rimarcare, anche se ora è un accademico, di essere sempre il figlio di un operaio che ha fatto proprie le istanze sociali e politiche della propria classe di provenienza. Ma nel fare questo si accorge che la sua classe ha disimparato quello che è stata perché il proletariato, orfano di quel Partito Comunista che un tempo era vissuto con appartenenza, oggi non rimarca più la sua alterità dalla borghesia ma dall’immigrazione, nella costante ricerca del nemico nell’altro, nel diverso prima e nello straniero poi.

In un’immaginaria conversazione tra rimpatriati, Anguilla sosterrebbe Didier nel puntare il dito contro un popolo che dimentica facilmente la propria storia e le proprie origini. Silvestro mostrerebbe la Sicilia di un tempo come esempio di conciliazione tra le difficoltà del quotidiano e il desiderio di fare con la forza di chi parla mentre altri tacciono. E Ingwer ricorderebbe che le tracce del proprio passato sono come le linee delle nostre mani. Non bisogna scomodare l’archeologia. Basta guardarle. Ci accompagnano.

Claudio Musso