Tutti dormono nella valle di Ginevra Lamberti è costruito come una specie di puzzle che si incastra, ma che grazie al grande esercizio di scrittura dell’autrice si adatta placidamente allo scorrere delle pagine. È una storia famigliare di nonna, figlia e nipote. Le tre donne sono legate dall’albero genealogico che viene presentato all’inizio del libro con solo nomi “perché i cognomi vogliono dire che appartieni a qualcuno”.

L’ansia di libertà delle protagoniste si percepisce soprattutto nella storia di Costanza,  figlia degli anni ’70 e ‘80 che vive la sua giovinezza viaggiando in autostop, andando ai concerti rock, spostandosi in giro per l’Italia con le amiche, incontrando continuamente giovani con gli stessi stili di vita. Costanza è forse la vera protagonista del libro, colei che nella valle non ci doveva proprio restare, quella che pensava che la casa gialla fosse solo un posto dove tornare ogni tanto a dormire. La sua casa era il mondo. Incredibile la descrizione delle piazze frequentate da lei in quegli anni, ad esempio quella di Firenze, che di notte si trasformavano in un’immensa distesa di sacchi a pelo con giovani provenienti da tutto il mondo.

Augusta, madre di Costanza è bambina nel 1956, quando la famiglia le annuncia che non è più costretta a lavorare in fabbrica e che si trasferirà a Milano a servizio di una famiglia che la pagherà pochissimo, come facevano le famiglie borghesi di quei tempi con le ragazze di campagna.

Per Augusta si intuisce da subito che non c’è aspettativa per il futuro in lei. Il suo unico sogno era acquistare una bambola vista in vetrina a Milano, che non si sarebbe mai potuta permettere. Al suo rientro nella valle la aspetta un triste matrimonio combinato.

Già dalle prime pagine del libro si percepisce l’enorme distacco generazionale che c’è stato tra queste due generazioni, madri che non immaginavano lontanamente quello che combinavano le figlie “là fuori” e figlie che non si identificavano per niente in madri consumate molto presto dalla fatica della vita.

Sì, perché alla generazione di Costanza il patriarcato sembrava finito, costumi sessuali più liberi, ragazze che non vedevano nel matrimonio l’unica fonte di salvezza dai padri-padroni. Tutto era in cambiamento, tutto. Ma a Costanza non andò così.

A lei andò diversamente, il suo destino la ricaccerà nella valle, unico luogo in cui avrebbe far dimenticare al suo amore Claudio, l’eroina.

Un amore splendido, quello della copertina del libro, due ragazzi che si baciano in bianco e nero con tagli di capelli e vestiti anni’70.

Claudio ha un “difetto” come lo chiama il padre, la tossicodipendenza, ma l’amore resiste così tanto che Costanza lo segue facendosi accettare nella “comunità” con il grande Capo che l’autrice non chiamerà mai per nome, ma che descrive come un luogo coercitivo, ma anche un posto dove le classi sociali erano state livellate: si trovava il ragazzo di borgata accanto al figlio dell’industriale. La dipendenza da eroina non faceva differenze in quegli anni, una generazione fu tranciata in modo subdolo, una generazione che forse poteva cambiare il mondo con i suoi nuovi ideali.

Inutile descrivere come potevano essere allibiti e attoniti i genitori di quei ragazzi in quegli anni. Certo che quel Grande Capo rappresentava la speranza per quelle famiglie, certo che gli baciavano le mani quando lo incontravano. Per molti rappresentava il ritorno alla vita, il rifiorire dei loro figli.

Per quanto si possa discutere del metodo di quella comunità, è innegabile che era l’unica non gestita dalla Conferenza episcopale, era necessaria. Poi si può dire di tutto, che molti non riuscivano più ad uscire da quella collina, che era diventata una “cosa” troppo grossa per essere gestita da quella gerarchia particolare. Ma perché nessun altro aveva tentato qualcos’altro in quel periodo storico. Dov’era lo Stato? Qual era l’alternativa? Lasciare che tutti quei ragazzi morissero sulle panchine?

Costanza inizia a vivere in uno stato d’animo triste, anche quando scopre di essere incinta di Gaia, ed è per questo che ci sarà per lei il ritorno nella valle desolata. Trovo stupendo questo rincontrarsi tra madre e figlia, il curarsi della madre Augusta tenendola in vita anche quando era giunta la sua ora. Costanza si trasforma in Ursula, la protagonista di Cent’anni di solitudine che deve curarsi di tutti, oltre che della madre, anche del marito che ne esce male dalla sua condizione di tossico, e infine della figlia Gaia.

Negli ultimi capitoli si incontra Gaia adolescente che si sente disadattata senza sapere che in adolescenza tutti si sentono così, che non sa cosa intraprendere nella vita, che pensa forse di essere destinata a quella valle dove prima o dopo tutti dovranno dormire.

Dall’altra parte può succedere quando si ha una madre che scrive una poesia che finisce così: “…ancora pago, ma chi se ne frega, le cambiali non scadono mai”.

Penso che questo libro sia dedicato a una madre, ma in fondo a tutte le madri che sono capite e non giudicate da noi figlie che le abbiamo guardate a distanza ravvicinata.  

Ma “C’è una storia per l’inizio e una storia per la fine” e Costanza insegna a Gaia il coraggio: “Se ho perso vuol dire che non devo più aver paura”.

Forse torneranno anche loro a dormire nella valle, ma non è ancora il momento.

Ornella Bertagnoli

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