Fantasie di stupro è la prima raccolta di racconti di Margaret Atwood (Ottawa, Ontario, 18 Novembre 1939), pubblicata in Italia da Racconti edizioni.

Usciti nel ’77 con il titolo originale Dancing Girls and Other Stories, per McClelland & Stewart, i quattordici racconti che compongono questa raccolta preannunciano già i temi che accompagneranno il lavoro eclettico e vastissimo dell’autrice canadese: l’alienazione di sé e il senso di estraniazione, di smarrimento, di fronte alla società (Guerra in bagno, Sottovetro), l’incomunicabilità e l’incomprensione tra i sessi (Gioielli per capelli, Il quetzal risplendente), la paura dell’estraneo (L’uomo che veniva da Marte, Quando succederà, Ballerine), e l’ostilità della società verso il femminino (Polarità, Dare alla luce).

Qui non siamo in uno dei futuri distopici per i quali la scrittrice diventerà famosa – Gilead e le atmosfere di repressione de Il racconto dell’ancella (1985) sono ancora lontane – ma il senso di sfiducia per il sistema di relazioni e per i ruoli di potere che governano il mondo è lo stesso: sono passati quasi dieci anni dal 1968 e le promesse di emancipazione e liberazione sessuale sono state disattese. Le donne che provano a rivendicare i propri diritti e desideri devono fare i conti con i pericoli che vi sono associati, primo tra tutti la destabilizzazione dei ruoli nella relazione tra i sessi. La coppia ne esce scossa nelle sue fondamenta e così gli individui che la compongono, mentre un senso di angoscia e di pericolo imminente sembra pervadere la quotidianità.

Così un latente senso di vuoto toglie concretezza alla vita dei protagonisti di Fantasie di stupro e li confina nelle loro solitudini, rendendoli incapaci di scongiurare il fallimento dei legami sentimentali: la coppia diventa il luogo dove assestare colpi e colpe, prevaricare e affermare la propria identità a discapito dell’altro, aggredire e vittimizzare, prima dell’inevitabile separazione.

Vorrei che fosse finita, questa lunga, urticante gara per il ruolo di vittima; un tempo era importante che finisse bene, con grazia, ma non ora. Uno di noi dovrebbe alzarsi dalla panchina, stringere la mano all’altro, e andarsene, ormai non mi importa più chi dei due, si eviterebbero le recriminazioni, il calcolo dei punteggi, la rivendicazione delle proprietà, la tua chiave, il mio libro. Ma non sarà così […].  (La tomba del poeta famoso)

Benché il punto di vista dei racconti sia quasi sempre quello femminile, la Atwood non mostra favoritismi nel tratteggiare i propri personaggi: le donne sono ciniche, smaliziate, bugiarde e calcolatrici quanto gli uomini. La loro fragilità – e la consapevolezza del pericolo che l’uomo rappresenta – le porta a esserlo (una modalità di ritratto che ritroveremo in altre opere della Atwood, Alias Grace, su tutte): perfino nella innocua posizione fetale l’uomo addormentato non perde il suo potenziale minaccioso e l’immunità di cui sembra godere socialmente:

Lui è a letto, addormentato in un groviglio di coperte, supino con le ginocchia in grembo. Ho sempre paura a svegliarlo; ricordo storie di uomini che uccidono nel sonno a occhi aperti, pensando che la donna sia un ladro o un soldato nemico. Non si può essere condannati per un delitto del genere. (Sottovento)

Dietro al senso di pericolo rappresentato dall’altro si nasconde l’idea che la distanza tra il maschile e il femminile sia incolmabile. Un vuoto che fa paura.

Ma perché lo faceva, perché andava a caccia dei suoi uccelli immaginari, fingendo di crederle? In parte perché, sebbene sapesse cosa gli stava facendo, non aveva idea del perché lo facesse. Non poteva essere per semplice cattiveria, quella la sfogava già abbastanza. Non voleva conoscerne i motivi reali, che incombevano nella sua mente come qualcosa di informe, minaccioso e definitivo. La sua bugia sugli uccelli era una delle molte bugie che tenevano in piedi tutto quanto. Aveva paura di affrontarla, perché sarebbe stata la fine, tutte le messinscene sarebbero crollate e loro sarebbero rimasti tra le macerie, a guardarsi in faccia. Non avrebbero avuto nient’altro da dirsi e a questo Edward non era ancora pronto. (Il quetzal splendente)

E ciò che non si capisce e non si può arrivare a conoscere genera meccanismi di difesa, e un modo distorto di approcciarsi all’altro:

Capì che voleva solo la Louise disperata e pazza, quella privata di qualsiasi obiettivo o difesa. Una Louise sana, che potesse giudicarlo, non sarebbe mai stato in grado di gestirla. Quindi era questa la ragazza dei suoi sogni, alla fine aveva trovato la sua donna ideale; una disintegrazione, la mente che tornava ai frammenti costitutivi della propria materia, una creatura sconfitta e informe su cui potesse imporsi come la vanga sulla terra, l’ascia sulla foresta, da usare senza essere usato, da conoscere senza essere conosciuto.

(Polarità)

Un divario incolmabile separa i personaggi di questi racconti, ognuno talmente lontano dal partner da perderne la traccia di realismo; attraverso la ripetizione ossessiva dell’assenza, l’altro è trasformato in un fantasma incorporeo sul quale proiettare le proprie insicurezze e i propri fallimenti:

Proprio perché non te ne eri andato nel modo giusto, mi sembrò come se non te ne fossi mai andato. Continuavi a rimanermi attaccato, come un miasma o l’odore dei topi, in attesa di sgonfiare i miei tentativi di ottimismo con la tua ostilità ai miei comportamenti. Come se tu fossi il mio gemello oscuro o un esperto con cui avevo instaurato una sinistra telepatia, riuscivo a sentire in ogni occasione quale sarebbe stata la tua opinione. Quando mi sono fidanzata mi hai fatto sapere che ti saresti aspettato qualcos’altro da me. Anche il matrimonio, sì, con tutti i fronzoli, compreso l’abito bianco, ti riempirono di disprezzo. […] I miei due figli non ti hanno colpito, né ti ha fatto colpo il ruolo che, in seguito, ho rivestito all’università. Ma quando tornai dalla conferenza a casa, che non è un bungalow ma una casa coloniale a due piani e in cui, da quando mi sono trasferita, hai occupato la cantina, tu non eri sparito. Mi aspettavo che saresti stato espulso, esorcizzato; eri diventato reale, avevi una moglie e tre istantanee, e la banalità è, in fondo, l’antidoto magico per l’amore non corrisposto. Ma non era bastato. Eccoti lì, al solito posto, accanto allo scaffale a destra delle scale che portano in cantina, dove tengo le conserve, impolverato e imbalsamato come Jeremy Bentham nella sua teca di vetro, […]

Addio, ti dico, aspettando il tuo sguardo, pensoso, dolente. Dovresti girarti e andartene, oltrepassare i bauli, girare l’angolo che porta alla lavanderia, e scomparire dietro la lavasciuga doppio cestello; ma tu non ti muovi.  (Gioielli per capelli)

Il sogno di comunione è infranto, il contatto impossibile, la realtà perde significato; e così i soldi sono “dischetti d’argento” in cambio dei quali si ottengono biglietti per la metro che sono “pezzi di carta rettangolari”.

Tuttavia sono felice mentre scendo le scale e vado verso la biglietteria. Le mani funzionano, dànno dischetti d’argento in cambio di pezzi di carta rettangolari. Se questo si può fare, se tutti sanno cosa significa una cosa del genere, allora c’è una possibilità. Se potessimo fare una cosa del genere: io gli darei un sassolino, un fiore, lui capirebbe, tradurrebbe esattamente. Ricambierebbe, mi darebbe… Penso di nuovo che abbia bisogno di altri bicchieri e valuto l’ipotesi di comprargli un grande telo da bagno. (Sottovetro)

Anche i verbi partecipano a questo scollamento dalla realtà: condizionale, il tempo della realtà ipotetica.

Ricambierebbe. Capirebbe. Mi darebbe… spera la protagonista di Sottovetro, ma è impossibile: è l’interruzione del pensiero tramite i puntini di sospensione e la cesura della frase a relegare il desiderio al piano della fantasia. Lontana dalla realtà dei bicchieri in quantità insufficiente a dissetare entrambe gli amanti (rivelatori dell’illusorietà della relazione e dell’inconsistenza di una quotidianità condivisa), la speranza di questa donna che vorrebbe insegnare all’uomo come si ama si infrange contro la realtà delle manchevolezze di entrambi: nemmeno lei sa come si fa.

Ora voglio dirgli che nessuno gli ha mai insegnato come si comportano due persone che si amano, e che evitano di farsi del male l’un l’altra, ma non sono certa di saperlo. (Sottovetro)

C’è sempre un dolore diafano, appena visibile alle spalle dei personaggi di queste storie: un abuso, un tradimento, un rifiuto, un lutto, un aborto. Quasi sempre porta con sé una perdita o una frammentazione.

Eppure, a questo fa da contraltare un’altra caratteristica tipica dei personaggi della scrittrice: l’ironia.

Queste donne hanno uno sguardo disilluso sulla realtà, che permette loro una lettura cinica e disincantata degli eventi e le eleva dal ruolo di vittime al quale dovrebbero aderire.

Ne risultano riflessioni lucide e esilaranti, che illuminano la narrazione e riscattano gli eventi da un eccesso di drammaticità. Questi luminosi intermezzi, spesso supportati da un indiretto libero fresco e gergale (anche grazie allo splendido lavoro di traduzione fatto da Gaja Cenciarelli), tagliano il raccontato come fasci di luce in una camera in penombra, riportando un equilibrio di chiaroscuri nelle storie.

Parlando di tradimento…

– prenda le pillole. Forse sta solo affermando la sua libertà, lei è troppo possessiva. Lui sta scappando. Lo ha portato lei a tutto questo, nella cabina telefonica da cui è uscito trasformandosi in Supermacho. Un cazzo autopropellente cui è attaccato il cervellino di una termite, un paio di bicchieri e lo infilerebbe ovunque. Come i serpenti notturni ha i sensori a infrarossi sul davanti, al buio attacca qualsiasi cosa emani calore. Quando torna la luce, si scopre che si stava scopando la valvola dell’aria calda.

[…]

Che poi lei è proprio il suo tipo, devono essersela spassata alla grande assieme, sono entrambi atletici, forse lei tiene il tempo con il fischietto, peep! Via, partiti. (Sottovetro)

… come di un tema spinoso come la violenza sessuale:

Voglio dire, non è che fanno i maniaci sessuali sempre, il resto del tempo dovranno pur fare una vita normale. Secondo me gli piace guardare il Late Show come a tutti gli altri.

[…]

Forse sono anormale, o chissà cosa, insomma, anche io ho delle fantasie su affascinanti sconosciuti che entrano dalla finestra, come Mastro Lindo, vorrei che qualcuno lo facesse, ti prego Dio qualcuno senza i piedi piatti e le macchie di sudore sulla camicia, e magari più alto di un metro e ottanta, credimi, essere alti è un handicap. (Fantasie di stupro)

Come per il manierismo michelangiolesco, la tragedia rivela quindi il suo risvolto luminoso ed eroico: la Atwood non parla dei vinti, chi cade viene ritratto nel momento della parabola del volo, nel dimenarsi forsennato della lotta per il rispetto di sé. Questo aspetto dei suoi personaggi li rende coraggiosi, se non padroni del proprio destino, quantomeno lontani dall’arrendersi a esso.

“C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce” scriveva Leonard Cohen, e a me sembra essere proprio questa la chiave di lettura per i personaggi di Fantasie di Stupro.

Anja Widmann