“Brutta faccenda, quella dei denti. Un’agonia iniziata da adolescente e che Cesco si portava addosso come una maledizione; il primo era stato un molare sinistro, curato da un tal Giovinazzi tra indicibili sofferenze e una notte trascorsa a bestemmiare. E poi il canino sinistro, il premolare destro, il secondo molare sinistro, un incisivo. Dopo il Grandi, passò in rassegna metà dei dentisti della provincia. Ai suoi occhi, tutti macellai squilibrati. Il terzo voleva cavargli un incisivo sano. Al quinto tremava il braccio come a un soldato della Grande Guerra appena tornato dal fronte. Il sesto o settimo aveva la mano che pareva quella di un gigante e gli aveva lasciato una mascella gonfia e dolorante per una settimana. Eccola, la sua dannazione. La storia dei suoi denti che si guastavano come pomodori al sole. Al nono dentista smise di curarsi. Perderli tutti, ecco la soluzione. Una dentiera tanto per abbozzare la masticazione, tanto per mordere il pane, e via. Che disdetta restare senza denti o tenerseli guasti, con vent’anni! E le donne, pensava, non lo avrebbero mai più guardato. Sarebbe andato per bordelli tutta la vita. Alla fine era tornato dal Grandi, spronato dalla madre, perché aveva una tecnica, il Grandi, e che tecnica: gli aveva fatto l’ipnosi, quel diavolo di un dentista, e Cesco, privato dei sensi (tranne la vista), se ne stava seduto su quella sediaccia buono buono, a fissare con terrore gli attrezzi del dentista che scandagliavano la sua bocca, e per la prima volta in vita sua non aveva sentito dolore. Il Grandi gli impartiva l’ordine di aprire la bocca, di più, di meno, sputa, gira la testa, e Cesco meccanicamente eseguiva, come un barboncino ubbidiente, senza neppure accorgersene. Sette denti, gli aveva aggiustato in questo modo, e Cesco era tornato a vivere, a masticare il salame e la carne come gli altri esseri umani. E proprio adesso quel dannato Grandi si era fatto acchiappare dall’Upi, proprio la settimana prima che quel nuovo dente cominciasse a dargli il tormento”.

Qualche tempo fa, non molto ma abbastanza da essere giunti ad abbandonare la pelle ambrata per ritrovarsi seduti a cercare il calore dentro sformati maglioni invernali, ho avuto il piacere di incontrare Gian Marco Griffi per parlare del suo libro. E, giacché non c’eravate tutti lì presenti, cari lettori di Exlibris20, ho pensato di scriverne.

Ferrovie del Messico è sicuramente un romanzo, ma è innanzitutto un viaggio, moderno, arcaico, lungo e repentino. È vorace perché ti leva il fiato ed è (o almeno per me lo è stato) inaspettato.

Per usare un’espressione tanto cara a Borges, e questa affermazione si sposa in pieno con Ferrovie, il romanzo è un giardino dei sentieri che si biforcano: si parte da un punto per approdare verso infiniti punti in cui non ci si fermerà mai.

Cesco Magetti, ventitré anni, milite della Guardia nazionale repubblicana ferroviaria, di stanza ad Asti, l’8 febbraio del 1944, chissà perché, chissà da chi, riceve l’incarico di compilare una mappa delle ferrovie del Messico. È in virtù di questo ordine grottesco – ma in guerra, non è forse grottesco qualsiasi ordine? –, che è poi anche un grande patto narrativo con il lettore, che si scatena la forza eversiva dell’intera vicenda propria di un libro che rischia di diventare l’antesignano di un rinnovato, rocambolesco romanzo picaresco.

Il primo passo per cercare il volume desiato è quello di recarsi in biblioteca, dove conosce Tilde, una ragazza un po’ matta – o meglio una incompresa sognatrice – di cui si innamora perdutamente.

“Tilde diceva che i greci avevano scritto tutto, lui indicava un fienile bruciato da sessant’anni e diceva questo no (…) i greci non avrebbero mai scritto di stupidi monferrini nudi in una cascina diroccata”

Ma il libro è in prestito e non gli resta che mettersi alla caccia del volume che sembra passare di mano in mano. Nel corso di questa affannosa ricerca, Cesco entra in contatto con decine di personaggi, tutti magnificamente delineati, che lo introducono per misteriosa coincidenza allo sconosciuto universo messicano, attraverso libri e racconti del passato che incredibilmente si saldano con la realtà del presente. Un universo che alla fine diventerà fondamentale per la vita di Cesco, e che ne determinerà l’evoluzione in termini di consapevolezza.

E dentro ci troviamo le stranezze di Benni mescolate a divagazioni storico-geografico-letterarie nel nome di Borges, Bolaño, Pynchon, Gadda. Un mare magnum di letture e un bel bagaglio culturale hanno consentito a Griffi di esplorare l’universo letterario in tutte le sue forme, dando vita a un’odissea minima e storicamente precisa in cui confluiscono tutte le storie possibili, lontane e vicine nello spazio e nel tempo, per trovare una giustificazione ai tormenti di un personaggio appartato.

Un lungo treno onirico, volti, personaggi bellissimi, riferimenti altissimi e anche ricerca di dialettismi e invenzioni. Ferrovie del Messico è anti-retorico, rifugge il patetico, suscita empatia senza impiegare trucchi lacrimevoli, il dramma non scivola mai verso il melodramma.

“È come se la mia corazza d’amore per la vita fosse continuamente sbocconcellata dal pesce del grottesco e da quello del tragico, e l’unico modo per proteggermi, per ripararmi, è un certo modo di guardare al mondo, un lirismo. Essere lirici e ironici è la sola cosa che protegge dalla disperazione assoluta. Io abito il mio lirismo, Cesco, per continuare ad amare la vita: ogni evento vissuto non può che tradursi in queste due forme d’esistere, lirismo e ironia, perché la terza sarebbe la disperazione, e a quella non saprei porre rimedio. Non c’è altro”.

Leggere, scrivere e saperlo fare bene. Non c’è altro. Non c’è nulla di più. C’è tutto.

Natalia Ceravolo

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