Per una lira è il titolo di una canzone di Lucio Battisti che comincia così: Per una lira io vendo tutti i sogni miei. E poi la voce a strisce di Battisti racconta la storia di qualcuno che a malincuore si distacca da una parte di sé. Ascoltandola, ho sempre pensato a chi scrive. In particolare agli esordienti. Chi, per la prima volta (e spesso per una lira) consegna il proprio destino al mondo. Nell’incertezza e nell’imprecisione, un esordio insegna a scrivere più di un capolavoro (anche quando le due cose coincidono: David Foster Wallace, La scopa del sistema, 1987). Per una lira è uno spazio dove leggendo le nuove voci della narrativa, italiana e straniera, metteremo in luce alcuni aspetti di un romanzo legati al gesto dello scrivere per la prima volta, ovvero alla scoperta della propria voce.

Alessandra Minervini tiene corsi di scrittura, scrive e legge molto. Il suo sito è alessandraminervini.info.


Goliarda Sapienza, Lettera aperta, Einaudi 2017

Guerresca e pacifica, aggressiva e mite. Così è Goliarda Sapienza anche da bambina: una bambina che vive un suo mondo violento, senza nessuna concessione, che piange con lacrime di rabbia, che respira l’aspra bellezza siciliana, che vede i suoi genitori per quello che sono: una madre sindacalista, tenace nel distinguersi da tutte le altre «donnette», un padre siciliano dalla testa ai piedi. E per rimettere ordine tra le bugie dei ricordi, recupera dalla memoria frammenti di sé che a poco a poco si compongono nel percorso di una donna che vuole essere padrona della sua vita e della sua felicità. Innocente, ricco, tenero, delirante, doloroso come solo l’infanzia e l’adolescenza possono essere, Lettera aperta è il prezzo d’amore pagato da chi ha affrontato una realtà incandescente che prima non era in grado di affrontare, lasciandosi così alle spalle le «cose brutte che ci sono qua dentro».
einaudi.it


Lezione n. 61

Scrivere di noi, l’autobiografia delle contraddizioni di Goliarda Sapienza in Lettera Aperta

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“La felicità è l’unica cosa che andrebbe descritta, insegnata.”

Se ho imparato oppure disimparato a raccontare una storia che mi riguarda, che mi interessa davvero, è per te, e mi prendo la licenza poetica oppure antipoetica per scriverti una lettera, come se potessi rispondermi, come se non mi avessi già risposto tutte le volte che sei rinata nelle tue vite oppure nelle nostre.

Scrivere è dare un nome alle cose. Condividere per mettersi in rapporto con gli altri. Scrivere non è terapia, non è salvezza, non è guarigione. Si avvicina moltissimo alle tre esperienze: genera una distanza e una vicinanza. Una lampadina che si accende e l’attimo dopo si frantuma.

All’inizio degli anni sessanta in Spagna c’è Franco, in America c’è Kennedy. Hai una gonna chiara di cotone, oppure di lino, hai deciso di far tornare la felicità con la scrittura che toglie e concede. All’inizio degli anni sessanta hai quarant’anni, in Italia ci sono il miracolo economico e l’elettroshock. Scegli di scrivere la tua vita, quello che della tua vita ti va di raccontare, senza la smania della riproduzione della realtà, della menzogna di fedeltà. Ti piace tradirti, ti capiamo ma non lo ammettiamo mai. Scrivere di sé è tradire se stessi senza peccato e senza peccatori. È il contrario di vivere, è osservare con concentrazione ogni dettaglio, rivalutare le strade percorse per intraprenderne altre. Le migliori storie si trovano nelle  cantine. Ci hai mai fatto caso? Quando scrivi le cantine sono spalancate, il disordine che le caratterizza è sparito. Scrivere è mettere ordine. Sono gli anni sessanta e tu fai ordine, ci provi e ti metti a raccontare, dici i fatti tuoi con lo sgarbo di una dea che ha deciso di scendere sulla terra.

Lettera Aperta diventa il primo volume di quella che definisci “autobiografia delle contraddizioni”. L’unica certezza per te diventa il dubbio oppure la letteratura. Lettera aperta nel 1967 esce nella collana romanzi moderni di Garzanti, grazie ad Attilio Bertolucci e con l’editing di Enzo Siciliano. Viene candidato al Premio Strega, senza attenzione da parte della critica ufficiale.

“Ho bisogno di voi per sbarazzarmi di tutte le cose brutte che ci sono qui dentro.”

Dacia Maraini dice: “Lettera Aperta è il suo libro più compiuto, certamente il più significativo”. Per la delicatezza con cui attraversi il vissuto inconsueto, alle prese con due genitori, lontani dal conformismo di qualsiasi epoca. Eppure, di sesso non si parla. Quella parte resta ancora inedita.

Quando ti metti a raccontare se hai sofferto, non sei la vittima. Al più, sei incazzata. Se hai gioito, non sei la vincitrice. Se stai mentendo, non sali su un piedistallo.

“Non è per importunarvi con una nuova storia né per fare esercizio di calligrafia, come ho fatto anch’io per lungo tempo; né per bisogno di verità – non mi interessa affatto, – che mi decido a parlarvi di quello che non avendo capito mi pesa da quarant’anni sulle spalle.”

Scrivi scopertamente a tua madre, Maria Giudice. Scegli di raccontare i difetti e i tabù, le storture e gli abbandoni, metti in relazione il racconto di tutti i famigliari coinvolti dalla nascita ai tuoi primi quarant’anni. È un’autobiografia nuda e pura con una voce letteraria, piena di interesse per le parole e di amore per chi legge. La voce di Goliarda Sapienza (tu) è voce di scrittrice. Di chi non cerca le mezze verità, di chi non scimmiotta un sentimento ma ritrova un legame con qualcuno oppure con sé.

Il libro, nell’edizione tascabile Einaudi, ha il pregio di contenere una postfazione di Angelo Pellegrino (“Vivemmo anni di grande solitudine dopo i rifiuti editoriali. (…) Nel 1996 non esisteva più neanche una pagina che si potesse leggere di lei, quasi nessuna traccia della sua esistenza di scrittrice. (…) Era giusto che la sua entità sparisse del tutto?” e un’introduzione di Monica Farnetti, due testi che ti sarebbero piaciuti. In quest’ultima la studiosa chiude con egregio candore la presentazione del volume, romanzo di formazione oppure di incrostazione che sia: «Goliarda – direbbe Maria Zambrano – è il nome storico di tutta una specie», segnatamente quella delle donne che «conquistano un modo d’essere (…) rendendo per molti accessibile ciò che prima era chiuso». Si tratta, credo, esattamente di questo.”

Perciò: cosa rende fondamentale questo esordio per chi si avvicina al racconto della propria vita? Il punto di vista. Lo sguardo con cui l’esistenza viene tagliata a fette. E lo stesso sguardo si affaccia nella narrazione familiare: dai fratelli alle sorelle, al padre, allo zio fino alla madre a cui ti rivolgi emotivamente in terza persona, pur scrivendo tutto il resto in prima. Guardandola come donna prima che come madre; come personaggio prima che come essere umano.

“Io sono la tua mamma e tu sei la mia bambina: poi tra cinquanta, cento anni io diventerò la tua bambina e tu la mia mamma.”

Nel capitolo nono del romanzo, quando racconti “a tutto tondo” la storia di Maria Giudice, prima sindacalista donna italiana, tua madre diventa una bambina che dalla figlia vuole essere accudita. E così prosegui dando a tua madre un ruolo sempre meno materno, stabile ma allo stesso tempo vulnerabile con il bisogno di essere compresa.

“Dai dieci ai sedici anni corsi sempre finché una maniglia mi fermò.”

Quando racconti un famigliare lo afferri dentro una mano, come fosse qualcosa da spostare e consegnare a qualcuno. Questa semplice operazione chirurgica svela il punto di osservazione che determina il punto di vista. Una storia che usa la propria vita come risorsa narrativa non è mai banale se il punto di vista è saldo; implica oppure esclude una temperatura emotiva diversa da quella di chi scrive rispetto a chi rivive nella storia.

“Non c’è niente da fare: per fare ordine, bisogna prima toccare il fondo del disordine.”

Nel romanzo ricostruisci una trama. C’era già. Ma chi ha visto prima il cinema, le cozze crude la domenica, il sonno in treno, la violenza, gli occhi sbarrati e poi serrati, l’America senza l’America, il carcere, le strade vuote di Roma, mamma, papà, fratello dove sei, sorella mio unico amore, il fascismo, lo schifo, i bombardamenti, il sole di Catania, il macco, la pasta e ceci, un sacco di balle, la parola straniera, i materassi di lana, la carusa tosta oppure tu?

Parti dall’erosione e nell’erosione divampa la materia lavica che plasma te, se stessa oppure noi. Si scrive da ciò che di noi rimane, non sapremo mai ciò che c’è.

E poi quando hai finito di fare ordine, cioè di scrivere, ti sei rimessa a giocare. Non sappiamo dove cercarti. Ma tanto riappari oppure non sei mai andata via.

Piccola bibliografia

Goliarda Sapienza, Lettera aperta, Einaudi 2017

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