Dall’Ungheria ci spostiamo più a sud, verso i Balcani e il Mar Nero, per approdare in Bulgaria, nazione dall’antichissima tradizione letteraria, probabilmente la più antica tra le popolazioni slave.
La sua vicinanza all’Oriente ha reso la storia della Bulgaria ancora più travagliata rispetto a quella degli altri Paesi che abbiamo attraversato. Passata, come altri, attraverso Imperi e sogni di grandezza e di espansione, ma, soprattutto, terra di conquista: Bisanzio, prima, e gli Ottomani dopo, la cui dominazione si è protratta fino al XIX secolo. Dominazioni che hanno lasciato un segno indelebile nelle tradizioni, nella cultura, nella lingua e ovviamente, nella letteratura bulgare, non solo durante le loro epoche, ma fino ai giorni nostri.
E se il primo Novecento è stato un po’ avaro di nomi importanti, se si esclude una certa corrente poetica di matrice politica (Milev, Vacparov), assimilabile a quella russa che vede in Majakovskij il suo massimo esponente, gli ultimi anni hanno visto emergere autori di grandissima caratura, anche internazionale, tra tutti Georgi Gospodinov, vincitore, tra l’altro, del Premio Strega Europeo con il suo romanzo Cronorifugio.

GEORGI GOSPODINOV
Scrittore geniale, tra i più affascinanti autori europei degli ultimi anni, agli esordi come poeta fa seguire un’interessantissima produzione in prosa, dividendosi tra racconti, pubblicati in Italia da Voland in tre raccolte: …e altre storie, E tutto divenne luna, Tutti i nostri corpi e romanzi: dall’originale esordio con Romanzo naturale, al grande successo di Fisica della malinconia, fino alla consacrazione di Cronorifugio.
Già nei racconti scorgiamo tracce significative di alcuni temi che diverranno il fulcro delle sue opere principali: su tutti il tempo e la sua relatività, ma anche la morte e i morti (la “passione” per i cimiteri e le storie che raccontano), il potere della parola e del racconto, il non antropocentrismo, il socialismo, la crisi di valori della nostra epoca, la nostalgia.
Soprattutto in E tutto divenne luna possiamo rintracciare il seme da cui germoglierà Cronorifugio.

Il libro si svolge attorno ad alcuni temi fondamentali: il tempo e la sua relatività (fondamento di tutta l’opera di Gospodinov) e le infinite possibilità di piegarlo a proprio piacimento (concetto che troverà la propria sublimazione in Cronorifugio), la malinconia (studiata, sviscerata, codificata come una scienza, da cui il titolo del romanzo), il racconto, il viaggio: viaggi nello spazio, attraverso tutta l’Europa, alla ricerca di città da scoprire, di storie di raccontare, di vite da vivere, ma anche in fuga dalla propria esistenza, dalla presenze familiari, dai legami, dalla paura di restare rinchiuso in unico luogo, in un unico tempo. Viaggio come evasione dal proprio labirinto, come conquista della libertà, aspirazione più alta per chi è cresciuto sotto un regime.

Viaggi nel tempo, attraverso la storia e il mito, dove realtà e leggenda si confondono e personaggi veri e immaginari riprendono vita attraverso il protagonista. I tempi si intrecciano e si sovrappongono, rendendo spesso indistinguibili presente e passato, realtà e fantasia, perché tutto è contemporaneamente reale e immaginario, vissuto e da vivere, o rivissuto e da rivivere, storia e cronaca, passato e presente, racconto di racconti e vita vissuta.

E viaggi “dentro” gli altri: il perno attorno a cui ruota e si aggroviglia la storia è proprio la capacità del protagonista fin da bambino, anzi, soprattutto da bambino, di immedesimarsi nelle vite e nei pensieri altrui, di entrare completamente negli altri, al punto da viverne in prima persona non solo gli avvenimenti esteriori, ma i pensieri, le sensazioni, le emozioni, come fossero suoi propri, in qualsiasi punto del presente o del passato, senza limiti apparenti di forma, di specie, di tempo, di spazio, permettendo anche a noi lettori di fare altrettanto, di essere vecchio e bambino, uomo o donna, Teseo e il minotauro, allo stesso tempo vittima e carnefice, con le ansie e le paure di entrambi. Mi trasferivo in una storia e in un corpo altrui…spesso mi accadeva contro la mia volontà. Come se là, dove qualcuno provava dolore, in quel taglio, ferita, infiammazione, si aprisse un corridoio che mi risucchiava all’indietro.

Un libro costruito come un labirinto, con percorsi che si incrociano e si sovrappongono, lontano da qualsiasi concetto di unità di tempo e di spazio. Corridoi fisici e mentali, dove regna un’oscurità accumulata da secoli ed entro cui si muovono i personaggi orientandosi con l’eco dei propri passi e dei propri pensieri fatti parole, dette o non dette. 

È lo stesso autore ad affermare che alcuni libri devono essere equipaggiati del filo di Arianna. I corridoi si scatenano all’improvviso, si incrociano l’uno con l’altro. Il labirinto ti pone sempre nella condizione di dover scegliere, di scartare una strada a favore di un’altra, di prediligere una storia rinunciando a tutte le altre (ed è proprio da questa scelta che nasce il racconto), senza sapere mai se la decisione sia stata giusta. È questo a renderlo così angosciante, più ancora dell’impossibilità di uscirne.

Questo sentimento d’angoscia pervade tutto il romanzo: una profonda malinconia, una sensazione quasi epidermica di disagio, a volte dolorosa, altre consolante, che si innesta su questa empatia estrema del protagonista, “empatia patologica o sindrome ossessiva empatico-somatica”, come viene definita da un amico medico. Ma mentre quest’ultima è intimamente personale, la malinconia sembra essere un sentimento diffuso, proprio di una nazione o addirittura di un’epoca, tanto da portare il protagonista a teorizzare l’esistenza di una malinconia storica: viviamo in un’epoca di perdita di senso e di una incerta paura. Una paura lenta

Il libro, nel suo intricato dipanarsi, è racchiuso tra un prologo e un epilogo che rappresentano due facce di una stessa medaglia, l’Alfa e l’Omega della storia e della sua essenza, perfettamente e coerentemente collegate. Il prologo è tutte le nascite di tutte le vite vissute, incrociate, immaginate dal protagonista. Sono nato alla fine di agosto del 1913 come creatura umana di sesso maschile…sono nato come drosofila, due ore prima del sorgere del sole…e si conclude con un ecumenico, omnicomprensivo, IO SIAMO. L’epilogo è una summa delle morti, la fine di tutte le fini sono morto (partito per l’Ungheria) alla fine di gennaio del 1995, come essere umano di sesso maschile di 82 anni…sono morta in quanto mosca del vino all’imbrunire…sono sempre stato morto ed è sempre stato buio. E il cerchio si chiude con un altrettanto icastico io fummo.

Immergersi nella lettura dà a volte una sensazione di capogiro. Con il protagonista, soprattutto nella prima parte del romanzo, si entra e si esce da vite e personaggi sempre più complessi e contorti. Quest’empatia patologica è contagiosa, le storie e la storia si riscrivono cambiando i punti di vista, così siamo tutti il minotauro, non più mostro, ma fanciullo abbandonato, rinchiuso in un abisso profondo, un luogo senza possibilità di uscita, simbolo di tutti i reietti, gli emarginati, i bambini abbandonati anche solo per poche ore, punito per una colpa non sua. E questa storia, queste immagini, si ripetono nel corso del racconto, storie polifoniche, storie uniche, ma non univoche, fatti e soprattutto parole, vive e morte (non sapevo che sotto la lingua potesse covare tanta morte), parole e nomi, che non esisterebbero senza gli oggetti e le persone che richiamano, ma che, allo stesso tempo, di queste sanciscono l’esistenza. Parole che salvano e condannano, parole proibite perché proibito è il concetto che descrivono o sottendono. E l’importanza della parola, del racconto è un altro dei temi cardine dell’opera di Gospodinov. Affascinato dalla storia e dalle storie il protagonista ne diviene un collezionista, “comprandone” in giro per il mondo. Ama anche le storie non dette, quelle non accadute, ma che sarebbero potute accadere (in Cronorifugio Gospodinov dirà, parafrasando Tolstoj, che tutte le storie accadute si somigliano, ogni storia non accaduta non è accaduta a modo suo), quello che non è stato, ma era in potenza, le storie con un finale aperto e tutti i finali che avrebbero potuto chiuderle. Le storie non scritte, come una breve storia del silenzio.

Raccontare è anche un modo per esorcizzare la morte (morte sempre presente, come sottolinea la “passione” dell’autore per i cimiteri, e le storie che nascondono o che raccontano, enunciata più volte nella sua opera, non solo in questo romanzo), per “salvarsi”, come Sharazad in Le mille e una notte: la forza di chi racconta una storia sta nel tenere in punta di lingua un mondo nel quale è Dio, è giudice e boia, può decidere se dare la morte o rimandarla, in eterno. Assieme alle storie, storie vissute e spente troppo presto che si trasformano in proiezioni, storie che potranno essere e forse saranno, il protagonista accumula oggetti, testimonianze del passato come tesori per il futuro,

Questo bisogno incontenibile di accumulare sfocia in una maniacale e spasmodica ricerca di oggetti, notizie, informazioni, storie relative soprattutto a un’epoca, in un tentativo, più o meno consapevole, di ricostruzione di ambienti, situazioni, sensazioni, che altri porteranno all’estremo, anticipando il tema fondante del suo romanzo successivo, Cronorifugio.

Ma se lo scopo del viaggio, di ogni viaggio, è scavare nella memoria, regredire all’infanzia, giungere a una luogo ideale che esiste nello spirito piuttosto che in un tempo e in uno spazio definiti, cosa rimane realmente nella memoria? Cosa rimane alla fine? Probabilmente, quello che resta davvero, è qualcosa che non accade.

DEJAN ENEV
Scrittore molto interessante è anche Enev, personaggio particolare, passato attraverso una miriade di mestieri, che si sono rivelati un’inesauribile fonte di materiali per la sua vasta produzione di racconti (oltre 300, raccolti in una decina di antologie).
Circo Bulgaria, nella sua edizione inglese, è stato finalista al Franck O’Connor International Short Story Award nel 2011, ed è la prima opera di Enev tradotta in italiano.

Una sessantina di racconti, per la maggior parte brevi o brevissimi (a parte due o tre, in particolare Obitorio, che merita una menzione a parte). Sessanta piccoli romanzi fiume, come definiva Manganelli i propri racconti di Centuria, tra cui troviamo anche un esplicito omaggio a Salinger (Pescibanana).

Racconti in cui succede di tutto e non succede nulla, in cui, spesso, i finali sono assolutamente scollati dal resto della storia, decontestualizzati, quasi vivessero di vita propria, spesso secchi e rudi.

I finali erano la parte più facile – fa dire Enev al protagonista di uno dei racconti – Colpivano il lettore come una martellata in testa.

Sono storie piene di caffè, sigarette e rakija. Storie di miseria e degrado, di povertà, solitudine e abbandono. I protagonisti sono prostitute e papponi, criminali e mendicanti, ma anche bambini, animali, persino insetti. Personaggi ai margini della società, folli, miserabili, reietti.

Sono storie di chi vive di notte o all’alba, in campagna o in periferia, abitualmente. Notti di insegne al neon di bar aperti ventiquattr’ore, di night e di bordelli di qualsiasi ordine, popolate da tassisti pronti a spennarti, ma con un loro codice d’onore, bariste poco più che adolescenti, zingare puttane e ubriaconi. Personaggi deandreiani, perversi e disperati, abbrutiti dal vizio e dalla miseria, ma non privi di una loro umanità. Scene da città vecchia, Sofia come Genova.

Eppure si vedono squarci di poesia nel grigio di palazzi di periferia, cortili ricolmi di macerie, lugubri luoghi di reclusione (ospedali, orfanotrofi, manicomi), cimiteri, anche abbandonati: pallidi frammenti di luna, strappati quasi a forza all’oscurità, lampi di bellezza in un mondo abbrutito Quando si presentò nel suo abito da ballo, persino il vento si placò e si sdraiò ai suoi piedi come un cane.

Anche tristezza e squallore sono spesso dipinti con sottile ironia, che traspare, ad esempio, nei soprannomi di molti personaggi e nelle stravaganti perversioni di altri.

Giardini, piazze, panchine sono rifugio di ubriachi e bambini soli, figli di famiglie disgregate, e i luoghi dell’infanzia, trasfigurati dal ricordo, o dal sogno, perdono ogni magia confrontati con la realtà e con l’oltraggio degli anni passati. Frammenti, vuoti di memoria, ricordi a volte irreali, forse inventati, pezzi di storie, proprie e altrui, brandelli di cielo. Racconti surreali, storie senza storia. Del resto, alcune storie le capiscono solo i bambini e, a volte, i racconti valgono più dei ricordi I suoi racconti erano così belli che in un attimo davano vita a un mondo di cui avevo molto più bisogno rispetto ai veri ricordi.

Ci sono le voci che riempiono silenzi immutabili, le bolle di voci che a grappoli si levano verso il cielo, di notte, e i silenzi che riempiono spazi altrimenti vuoti, distanze incolmabili, o vicinanze in cui non servono neanche le parole, e per comunicare bastano gli sguardi o, a volte, persino solo il pensiero. Sparito anche il paesaggio, c’era solo lontananza, accessibile e ingannevole.

Di fronte allo squallore, all’incomunicabilità, all’impossibilità di amare, alla sofferenza, si cerca rifugio in sé stessi, alla ricerca di un porto sicuro. Eppure, a volte, guardandosi dentro per trovare risposte si scopre anche là il vuoto.

E allora la pace si cerca nel sonno (sonno come allegoria della morte) o nella fantasia: ci si crea un mondo irreale, immaginario, per sfuggire alla cattiveria e alla violenza di quello reale.

A Jozi piaceva svegliarsi nel cuore della notte. Al buio le cose erano molto diverse.

E poi la morte che aleggia sempre, su tutto, e può insinuarsi in qualsiasi anfratto, tanto che per permetterle di entrare basta anche una finestra socchiusa. Morte che cerchiamo di tenere lontana, di scacciare in tutti i modi, da noi e dai nostri cari, magari provando a infondere loro un po’ della nostra vita, attraverso il semplice tocco della mano.

Alla morte, appunto, è dedicato il racconto più lungo della raccolta, Obitorio, una sorta di mini romanzo, diviso in 13 capitoli racchiusi tra un prologo e un epilogo. Un’intensa e commossa riflessione sulla morte e sui morti, sulla loro cura, sull’importanza del commiato, su quanto sia fondamentale il modo in cui accompagniamo i nostri cari nel percorso che li conduce a questo passaggio (quando ci viene consentito), sulla necessità di non affrontare da soli un momento così triste, intenso, commovente e su come, sul limitare della sera, si affollino nella mente e nel cuore sentimenti strabordanti, ma anche ricordi piacevoli, magari a lungo accantonati 

Troviamo storie di ascese e cadute, coincidenze e destini incrociati. Storie di un popolo sottoposto a cinque secoli di schiavitù, storie di Russi e Ottomani, mescolate a racconti ancestrali. Religioni, miti, credenze, leggende e tesori nascosti

Colpiscono le descrizioni dei corpi: occhi di donne, come tunnel, a volte così scuri e profondi da non prevedere un’uscita. Uomini dai muscoli d’acciaio o dalle pance prominenti, dalla pelle dura come il cuoio e dello stesso colore (come selle da cavallo). Crani rasati, segnati da profonde cicatrici. Volti di anziane attraversati da rughe come torrenti. Meravigliosi corpi nudi di donne, dai ventri accoglienti, gambe su cui scivolare, seni morbidi e gustosi. Donne splendenti come ragnatele.

Nella rassegnazione generale, compaiono, in alcuni racconti, segnali di rivolta (ad es. Il grillo), presto sopraffatti dalla miseria della quotidianità.

Qua e là appare il confronto con l’occidente (un Occidente prigioniero, per dirla con Kundera), come, ad esempio, nel racconto Oltre le montagne, affrontato da punti di vista molteplici: i turisti ricchi che si mescolano alla corrotta nomenklatura locale, ma anche chi viene per lavoro e fuori dal centro città scopre una realtà antica, ormai dimenticata. Lo sguardo dello straniero che si trasforma, a mano a mano che si immerge più a fondo nella cultura e nell’anima bulgara, che si allontana dal centro per sprofondare in periferie disperse, in luoghi abitati ormai da poche anime abbandonate a loro stesse. Più si è lontani dalle immagini patinate, che furbastri e avventurieri vendono all’estero, di un Paese democratico, occidentalizzato, prospero e felice, e più ci si avvicina alla verità, al cuore di un popolo che anche nella miseria e nell’isolamento ha mantenuto la propria dignità e generosità. La propria autenticità.

Fabio Sarno

Vento dell’Est: Repubblica Ceca
Vento dell’Est: Ungheria