È immodesto cominciare un pezzo in memoria di un grande uomo raccontando di sé. Ma è da un atteggiamento personale che nasce questa storia. Il 13 di settembre è morto Guido Ceronetti e, di fronte alle attestazioni di apprezzamento e stima ho dovuto confessare che a me Ceronetti non è mai piaciuto. Non che io abbia mai letto le sue poesie, la narrativa, gli editoriali sul giornale della città. Non ho neppure assistito ad uno spettacolo del suo Teatro dei Sensibili. Eppure ho esercitato la mia modesta carriera teatrale nella stessa città del poeta sabaudo. Ho anche vissuto un intenso sodalizio professionale con una delle sue storiche attrici, Manuela Tamietti, della quale non capivo gli entusiasmi di fronte alle foto di scena che la rappresentavano abbigliata con mutandoni d’antan e la cuffietta da notte.

Ho sempre accantonato l’autore come un intellettuale un po’ blasé, un flaneur sabaudo emulo del nostro conterraneo e suo omonimo Gozzano, ma fuori tempo massimo. E lo ripeto: senza mai aver letto o visto alcunché frutto della sua produzione.

L’insano pregiudizio e diffidenza preconcetta è una tipica caratteristica sabauda che gli “stranieri” ci riconoscono e identificano nella fredda cortesia scostante della popolazione autoctona. È una tecnica semplice: si affibbia un’etichetta e subito ci si arrocca, ci si accieca, ci si fa indifferenti e Ceronetti con il suo prognatismo da maschera, il basco alle ventitré, il fisico esile e dismesso non ha fatto altro che consolidare il pregiudizio.

Eppure c’è un evento di fronte al quale anche il più accidioso dei sabaudi prevenuti si ritrae e apre una porta: questo evento è la morte. Ho “conosciuto” molti autori solo dopo che la morte me li aveva resi accessibili: Böll, Foster Wallace, Christa Wolf e Ceronetti. E così, il giorno stesso della sua dipartita, come un piccolo Stalin letterario ho permesso la riabilitazione del genio. La lettura del Piccolo inferno torinese è stata folgorante. Mentre sto leggendo il resto della sua produzione decido di riacciuffare Manuela per farmi raccontare la sua vita con Ceronetti per misurare l’ampiezza e la profondità dell’errore in cui sono incorso per tutti questi anni.

La vado a scovare sui monti di Biella dove al Lanificio di Miagliano esercita la sua attività di resistente del teatro. La mia avventura con Guido Ceronetti, racconta Manuela, nasce con un breve trafiletto di dieci righe su La Stampa, nel 1985. Si annunciavano provini al Teatro Stabile di Torino. Cercavano attori non più alti di un metro e settanta, possibilmente non professionisti, che sapessero recitare, improvvisare, muovere le marionette, ballare, cantare e suonare uno strumento. Avevo 20 anni e mi presentai. Ero a Torino da poco, costruivo marionette che vendevo nei mercatini. A Porta Pila partecipavo a tornei di improvvisazione e scambi giovanili con l’estero: erano gli anni dell’animazione culturale torinese che oggi è studiata nelle Università come un esempio di vitalità culturale.

Ai provini parteciparono i migliori attori del momento, io ero l’unica non professionista e la più giovane del gruppo. Ma alla fine fui scelta, una delle quattro donne che avrebbero dato vita al Teatro dei Sensibili. Con me c’erano Paola Roman, Simonetta Benozzo e Ariella Beddini.

Non so che cosa vide in me Guido. Ero così diversa dalle altre e distante dal suo mondo borghese e intellettuale, eppure gli piacqui e chissà perché. Un giorno mi disse che ero come un fiore di montagna. Il mio nome d’arte per il Teatro dei Sensibili è tutt’ora Melissa. Non lo scelse Guido e non gli piacque. Cercò di farmi cambiare idea in tutti i modi. Alla fine lo accettò per via dell’origine greca del nome, una ninfa che produce miele come un’ape.

Guido era gentile e bizzarro. Aveva strani orari e ci faceva leggere e provare testi mai visti prima. Dava premi e faceva gare per stimolare gli attori. Lavorare con Guido era una meravigliosa, continua, infaticabile avventura. Guido non ti permetteva mai di sederti, di adagiarti, di pensare di essere arrivata ad un traguardo. Era il suo stile, la sua natura: la ricerca della purezza, della poesia, dell’originalità, dell’ironia, della verità in ogni azione e parola. Quello che sapeva fare magistralmente con la parola scritta o tradotta lo applicava al mondo degli attori e della recitazione. Guido masticava e declamava versi di poeti in altre lingue per intere giornate, dal mattino alla sera: allo scrittoio, cucinando semi e erbette, bevendo il tè, passeggiando di notte. Il verso doveva suonare in italiano come quello della lingua originale e occorreva farlo riecheggiare nella vita quotidiana. Faceva lo stesso con il teatro e gli attori. Ci masticava, ci faceva riecheggiare, ci faceva risuonare. Per questo potevamo provare una scena all’infinito. Se non era convinto arrivava con il cambio scena, di battuta o di intenzione cinque minuti prima dell’inizio dello spettacolo. Spiazzava gli attori, ne determinava instabilità e insicurezza e non tutti amavano questo approccio.

Non era facile sopportare la sua contraddittorietà. Credevi di interpretare un suo desiderio o una sua volontà ma lui era già altrove. Era necessario stargli vicino, in Toscana, sempre a disposizione: solo così potevi entrare davvero nel suo mondo. Era difficile fargli rispettare una qualsiasi regola, orario o tema. Stava al mondo e in teatro in un modo tutto suo, in una maniera totale e assoluta che chiedeva anche dagli altri. Spesso non capivi cosa stesse accadendo, dove voleva arrivare, non potevi fare altro che affidarti. Con lui era un’esperienza totalizzante che ti scuoteva nel profondo.

Quando non provavamo si parlava di vita, si parlava di tutto: Guido sapeva essere spassoso, qualche volte anche senza volerlo. Le chiacchierate più serene e più ironiche sono quelle avvenute con i Sensibili della nuova generazione, con i ragazzi del Master del 2002 con il La Scuola di Teatro del “Piccolo” teatro di Milano. Questa nuova generazione di attori, musicisti e registi ha saputo creare un nuovo modo di relazionarsi con il Maestro e di essere parte del Teatro dei Sensibili. Forse perché più liberi di noi, più leggeri e anche più abituati a gestire un mondo che ti sommerge di stimoli.

Nella sua instabilità Guido ha lasciato tante tracce concrete. I libri, gli articoli, le carte, i collage, le poesie, le opere di altri artisti che gli hanno dedicato, i soggetti, gli appunti che sono conservati nel Fondo Ceronetti, nella Biblioteca Cantonale di Lugano. La Svizzera ha saputo corteggiarlo e valorizzare la sua produzione e proteggerà adeguatamente i suoi scritti e la sua memoria.

C’è molto altro qui in Italia. Qualcosa andrà a Genova, al Museo dell’Attore, qualcosa c’è ancora a Torino, altro a Cetona. Poi ci siamo noi, gli orfani di Guido e del Teatro dei Sensibili. Persone che hanno lavorato con lui e per lui per anni. Abbiamo vissuto al suo fianco, in anni diversi, in tempi diversi e ciascuno di noi conserva una piccola eredità di ricordi, azioni, letture, spettacoli, avventure che dobbiamo in qualche modo salvaguardare. Come, non lo so proprio.

Livio Milanesio