Secondo me tutto cominciò a causa degli Ewell, ma Jem, che ha quattro anni più di me, diceva che bisognava risalire molto più indietro, e precisamente all’estate in cui capitò da noi Dill e per primo ci diede l’idea di far uscire di casa Boo Radley.

A Maycomb, traduzione letteraria della città di Monroeville, trovarono posto, vi dicevo, tutti i fantasmi di quella donna che si chiamava Nelle – Harper era il cognome di un pediatra che aveva curato, salvandole la vita, una delle sue due sorelle maggiori.

La vecchia Maycomb, lontana dal fiume, con le sue strade polverose e il tribunale, i viali alberati e il suo quartiere nero. L’antica e stanca Maycomb, nel sud dell’Alabama, “un’isola nel mare del mosaico dei campi di cotone e delle foreste”. Maycomb, entrata di diritto nella mappa delle città più memorabili della letteratura.

To kill a mockingbird – il posto di tutti quei fantasmi – uscì l’11 luglio del ‘60, l’anno della vittoria democratica di John Fitzgerald Kennedy su Nixon.

Nel corso del ‘59, Nelle aveva scritto senza posa, seduta nel suo appartamentino di New York, uscendone di rado, fumando di continuo. Aveva scritto e cancellato e poi riscritto nuovamente, sotto lo sguardo attento di Therese von Hohoff Torrey, editor di Lippincott, che in quella donna del sud dell’Alabama, allora sconosciuta, aveva intravisto qualcosa di buono (di molto, molto buono), innamorandosi dei suoi personaggi, sebbene il suo primo romanzo, dal titolo Va’, metti una sentinella, cominciato e finito nel lampo di appena qualche mese, un paio di anni prima – un vero miracolo, e non solo per Nelle, che fino ad allora aveva scritto unicamente una manciata di racconti – fosse già stato rifiutato.

Quell’appartamentino nell’Upper East Side, che dava sul cortile: quanto vorrei poterlo visitare. Era minuscolo davvero. Non c’era la tv. La scrivania non era che una porta sopra due cavalletti.

Quasi nessuno nel palazzo avrebbe, allora o in seguito, capito chi fosse davvero quella donna gentile, per nulla appariscente, che ogni domenica mattina lasciava nell’ingresso la propria copia del New York Times, dopo aver completato il cruciverba. Quasi nessuno avrebbe collegato quel nome sul citofono all’autrice di uno dei romanzi più importanti della letteratura americana.

Lei non amava le interviste, non le piaceva parlare di sé. E dunque non voleva – e non lo fece mai – promuovere il suo libro. Non le importava un accidenti che la riconoscessero. Non era quello il punto.

Durante la stesura, era tornata spesso in Alabama per prendersi cura di suo padre. Quand’era a Monroeville scriveva di notte, negli uffici deserti e silenziosi di Barnett, Bugg & Lee, lo studio legale in cui il padre e la sorella Alice lavoravano. Gli uffici guardavano la piazza, accanto al tribunale. Erano quelli i momenti migliori. Era la compagnia dei suoi fantasmi – della paura e del coraggio, del pregiudizio e del suo scardinamento, della scoperta degli altri – ciò che le interessava.

Provate a immaginare quegli istanti: nottate silenziose durante le quali stava nascendo Maycomb, e comparivano la casa di Scout, quella di Dill e quella col portico sbilenco di Boo Radley, l’aula del tribunale, la chiesa Africana Metodista Episcopale Primo Acquisto, le case povere nella zona dei neri, il campo da gioco della scuola e la boscaglia.

Soltanto Nelle, intenta a scrivere e a fumare, e tutto intorno il buio.

I lettori impazzirono da subito per quel romanzo dal titolo bellissimo. Impazzirono per la bambina Scout, maschiaccio impenitente, pronta a riempire di botte chiunque osasse denigrare il nome di suo padre (negrofilo, l’accusa reiterata). Impazzirono per lui, Atticus Finch, per il suo senso di giustizia, per il suo amore per la verità. Impazzirono per Jem, fratello maggiore di Scout, compagno di sortite nel buio oltre la siepe, e per l’amico Dill, bambino strambo e sognatore, fantasma narrativo dell’infanzia di Truman Capote. C’era anche la disgraziata famiglia degli Ewell, che “viveva sullo stesso pezzo di terra, dietro la discarica di Maycomb, con i fondi dell’ente di assistenza della contea, da ormai tre generazioni”. E poi c’era Tom Robinson – ragazzo di colore ingiustamente accusato dello stupro della giovane Mayella Ewell, inutilmente difeso da Atticus – e c’era lui, Boo Radley, il misterioso Boo, recluso da anni, l’ombra che incuteva timore, l’uomo di cui si raccontavano decine di leggende nere, dalla cui casa sarebbe stato meglio, diceva la gente, tenersi alla larga.

L’estate del ‘60: undici anni prima che io venissi al mondo – il 14 luglio del 1971 – vent’anni prima di quelle scorribande nel bosco ora scomparso (uno dei miei fantasmi nella mia personale Maycomb), di quella banda di ragazzini, di quella specie di capanna, o piattaforma, di cui vi ho raccontato. Più di vent’anni prima che Il buio oltre la siepe giungesse fino a me, lasciando i segni che ogni grande romanzo, ogni romanzo autentico, è destinato a lasciare, stampando a fuoco nella mia memoria il nome di Maycomb e il nome di Scout.

Qualcuno di recente aveva detto alla gente di Maycomb che non doveva temere nulla, tranne il timore.

È questo quel che racconta Scout, è questo il cuore del romanzo: the only thing we have to fear is fear itself. Attraversare il buio è il viaggio che la aspetta. Jean Louise Finch, che ha appena sei anni quando la conosciamo, nel 1933, che non è ancora andata a scuola eppure sa già leggere e scrivere. Jean Finch, chiamata Scout dalle persone care (tra cui Calpurnia – come non ricordarla? – non solo una domestica, quasi una madre putativa). È nell’estate di quell’anno che il suo viaggio incomincia. E che momento storico, il 1933, al di là della finzione narrativa: il 4 marzo, tanto per dirne una, Franklin Delano Roosevelt, che aveva sconfitto alle elezioni il presidente uscente Hoover, aveva pronunciato il suo discorso inaugurale. Sentite…

Lasciate pertanto che io riaffermi in primo luogo la mia convinzione che la sola cosa di cui dobbiamo avere paura – aveva detto Roosevelt a una nazione piegata dalla crisi, in piena Depressione, impoverita e spaventata – è la paura stessa.

Nelle Harper Lee aveva allora la stessa età di Scout: riesco a vederla, con una salopette e coi capelli corti, nella sua casa a Monroeville, in Alabama Avenue, la radio accesa in salotto oppure in cucina, e da quell’apparecchio la voce di Roosevelt.

Quale impressione le deve avere fatto quel discorso.

Il buio e la paura di un intero paese, già. Il male, e insieme l’innocenza e, sempre, la speranza. E le vite degli altri: chi sono veramente gli altri, in Alabama o altrove?

Ma non forse è il viaggio di tutti i bambini – o non dovrebbe esserlo – guardare a un certo punto oltre la siepe, trovandone il coraggio? Non è così che si diventa adulti? E non è questo il compito – o non dovrebbe esserlo – di ciascuno di noi? Attraversare il buio, capire cosa è giusto e fare ciò che è giusto. Conoscere Boo Radley, per esempio, per quello che è davvero. Difendere Tom Robinson, qualunque ne sia il prezzo (quello che nel romanzo accade in tribunale, sulla piazza di Maycomb, quello che nonostante tutto tenta di fare Atticus).

A un certo punto, nel suo appartamentino di New York, Nelle scrisse l’ultima parola del romanzo, accese un’altra sigaretta e si sgranchì la schiena – la immagino così. I suoi fantasmi adesso erano a casa: li aveva richiamati, raccolti e trattenuti. Sarebbero rimasti lì con lei.

Era riuscita a riguardare il mondo con gli occhi dell’infanzia, e aveva detto quel che doveva dire.

Faceva freddo, molto probabilmente – il mese di novembre del ’59 – ma forse lei uscì, fece una passeggiata nell’Upper East Side, pensando ancora a Maycomb, pensando all’Alabama e alla bambina Scout.

C’erano cose che non poteva sapere: il fatto che To kill a mockingbird avrebbe scalato le classifiche, restandovi a lungo, che avrebbe vinto il Pulitzer e che sarebbe diventato un film. Il fatto, soprattutto, che non sarebbe più riuscita a scrivere nient’altro, nessun nuovo romanzo, e che avrebbe trascorso il resto della vita tentando di sfuggire ad Harper (la fama di Harper Lee) per rimanere Nelle.

Fece una lunga passeggiata, le mani nelle tasche del cappotto, mentre New York pulsava intorno a lei. Può darsi nevicasse. Prese un caffè, magari, per riscaldarsi un po’, o si fermò a parlare con qualcuno. Poi consegnò il suo manoscritto.

Alcuni giorni dopo, in Kansas, una famiglia venne sterminata. Quattro persone, in una notte orribile. Si chiamavano Clutter e vivevano a Holcomb.

Sul New York Times uscì soltanto un trafiletto, ma Truman Capote – il caro, vecchio Dill – passò a trovare Nelle: aveva una cosa da chiederle, aveva un’idea strana, aveva una proposta. I loro destini tornavano a incontrarsi. Insieme, avrebbero scritto un’altra pagina della letteratura. Ma questa è un’altra storia.

Rileggo da anni Il buio oltre la siepe. Una parte di me sarà per sempre Scout. In fondo ciò che faccio, scrivendo quel che scrivo, è continuare a bussare alla porta di Boo Radley.

In questa mattina di gennaio alzo il mio calice per Nelle, che è morta a Monroeville, chiudendo il cerchio della sua lunga vita dov’era incominciata, vicino ad Alabama Avenue. Sulla sua lapide la parola scrittrice non compare, né tantomeno compare il titolo del suo capolavoro. Su quella lapide non trovereste altro che il nome di una donna. Semplicemente questo: Nelle Harper Lee.

A proposito: l’ultima parola del romanzo, scritta sopra una porta piazzata su due cavalletti, quell’ultima bellissima parola era mattino.

Nelle continuò a pagarne l’affitto anche dopo il 2007, quando, in seguito a un infarto, dovette ristabilirsi a Monroeville.

Elena Varvello

Monroeville, Alabama – prima parte