Classe 1952, originario della provincia di Napoli, Antonio Ciavolino con quest’ultima prova, Ho lavorato sodo, ci conduce alla scoperta della forma poetica e di come questa riesca a combaciare con il vissuto. Certo, un attento lettore sa benissimo che la forma è fondamentale in poesia, ma un libro basato sulle forme chiuse e sulla versificazione tradizionale è da considerare una vera e propria rarità: con ciò va inteso un’opera in cui i componimenti presenti sono per lo più stanze, distici e sonetti. Siamo nel 2021, il verso libero spopola e una versificazione rispettosa delle regole tradizionali appare nell’opinione comune obsoleta, pertanto a cosa potrebbe servire un’operazione del genere?

Il titolo del libro richiama al lavoro, da non intendersi qui nel senso pavesiano, piuttosto come un percorso volto a conquistare un’espressione lirica cristallina. Se la parola metrica viene spesso accompagnata da espressioni facciali lungi dall’essere entusiasmanti, Antonio Ciavolino ci mostra con una certa abilità come le forme tradizionali possano stare al passo coi tempi, operazione per nulla nuova se pensiamo a voci come quella di Patrizia Valduga, per esempio, eppure sempre utile se si ricerca nell’elemento formale un tratto distintivo e identitario. Se è vero che a un certo punto della storia si è avvertito il bisogno di svincolarsi dalla metrica, è anche vero che tanta poesia nostrana deve la propria fortuna anche alle forme. Per non parlare poi dell’endecasillabo, mai sepolto in tutto il Novecento e ampiamente utilizzato dai grandi poeti, molti dei quali hanno comunque ricalcato in alcuni momenti quelle forme chiuse che ai più oggi farebbero storcere il naso.
In questo solco possiamo anche dare importanza a un termine come esercizio, tutt’altro che un semplice compitino metrico: per Ciavolino rappresenta anzi una disposizione personale al servizio di un’arte antichissima, tramandata da secoli, una nobile pratica che aspira alla perfezione dei grandi, ma con umiltà artigiana. «Questo libro di Antonio Ciavolino» spiega il curatore Giuseppe Cerbino nella prefazione, «nasce con l’idea […] di tenere viva tale persuasione: l’idea della poesia come canto, come unità sonora indefettibile. Questo non significa pensare che la poesia non possa modificare il proprio linguaggio ma occorre sorvegliarla affinché il linguaggio della tradizione non scompaia nella trasformazione». Cerchiamo di andare più a fondo a partire da questa osservazione.

WhatsApp

Mia figlia già messaggia su WhatsApp
le ultime foto prese contro sole
col suo ragazzo accanto ed un sorriso
accattivante, aperto a dimostrare
quanto è cresciuta. Ormai s’è fatta donna.

Io la ricordo ancora fanciullina
con le sue scarpe azzurre a scivolare
sui marmi al lungomare di Diamante,
con i capelli neri d’ossidiana
e la sua gonna a quadri tutta pieghe,
che mi correva incontro rossa in viso
e mi strillava un: “papi, sono qui!”

Il tempo, dove cresce e dove cala,
come la luna, è luogo di memorie
e mentre mi ritrovo a incanutire
mi allieta questo scampolo di lei
lontana, ma ancorata in fondo al cuore.

Sono versi come questi a rivelarci quanto duttili siano ancora certi espedienti nella scrittura, alla lettura per nulla artificiosi perché figli di una interiorizzazione profonda e di una pratica continua da parte dell’autore. E ci piace pensare che la costanza e la dedizione possano essere di per sé l’esercizio della vita, ossia la propria intima e genuina espressione. Se ci pensiamo ciò accade anche in altre discipline artistiche, pensiamo agli schizzi in pittura oppure agli studi in musica. A volte una pratica, nella percezione comune estemporanea, può farsi opera. Ma attenzione, se la vita imita l’arte molto di più di quanto l’arte imiti la vita, ci si rende conto che il percorso è ben più accidentato e di quanto la sola pratica non sia sufficiente. Nessuno pensi che dalle forme in sé nasca l’arte, il tutto si ridurrebbe a un mero rapporto tra sillabe e accenti. Il “gioco” funziona se attraverso le forme si parla alla vita e della vita. Antonio Ciavolino, nella limpidezza del dettato disposto in tre stanze, per esempio, ha dimostrato come anche le moderne tecnologie possano entrare nella forma, come possano convivere all’interno dello stesso componimento ricordi, riflessioni nate da suggestioni momentanee e come la fluidità delle interazioni di questi tempi non sia necessariamente estraniante. Il cuore di un padre sa essere immutato nei secoli, ma Antonio Ciavolino porta la testimonianza di padre di questo tempo e lo fa attraverso la grazia dell’endecasillabo che ben si sposa a un fraseggio tenero, consapevole, grato e lievemente malinconico. Whatsapp rappresenta solo un esempio di questo destreggiarsi senza arie da maestro, eppure compimento di una lunga esperienza, valore che in poesia, come del resto nella vita, ha un peso non trascurabile.

In nome di questo percorso non si intendano le singole sezioni della silloge come degli esempi da seguire: ognuna si apre con una brevissima descrizione personalizzata della forma adottata, intento del tutto privo di scopi didattici. Ho lavorato sodo, non presentando una tematica specifica, sottende la forma quale palcoscenico dell’esistenza: c’è un mondo prestabilito, con le proprie regole, nel quale bisogna muoversi con destrezza. Per questo ogni singola lirica costituisce un mondo a sé, un tassello di quella esperienza raggiunta a fatica che si accompagna con quel lieve distacco, tipico di chi nella vita ha visto moltissime cose e ha grande confidenza con le proprie dinamiche esistenziali. Non è un caso che in questi versi emergano spesso suggestioni del mondo contadino, ma qui non si riscontra alcun elemento di natura nostalgica o ideologica. Parliamo di un mondo che affascina per la semplicità e la cura delle cose sotto forma di rituale, quel mondo che impara e vive ascoltando la terra e i suoi tempi. Osserviamo questo sonetto (alla sezione Sonetti barbari), per esempio, e sentiamo come la sonorità accompagni una riflessione profondissima e sempre attuale.


Alla terra

Dove la terra spinge avanti il limite,
colà dimora amore che non muore:
banale calembour di rime solite
ciò non di meno piana verità.

La terra interra la volgarità,
sincera come il vino nelle mescite
poi quando e dove abbatte ogni dolore,
amore esalta le sue danze esplicite

e via l’osceno intorno che tempesta.
La terra, con il cuore, la sapienza
per una vita onesta, tanto basta:

amore e per la terra mai funesta,
la giostra della luna, l’abbondanza
del mio raccolto ed è giorno di festa.

Non è questa una via del rifugio dalla vita, ma un cosciente sottrarsi alle illusioni preservando il proprio scorrere con essenzialità, senza concedersi banalità ingannevoli: non lo si evince dal lessico, ricercato quanto basta, ma è il dispiegamento ritmico, l’incedere sicuro, lo sguardo lucido a contenere il proprio mondo destinato a finire. Ecco, forse la forma chiusa è esattamente questo, un portare a compimento un segmento di storia per salvarlo dal caos dell’infinito.

Federico Preziosi