L’immagine di copertina: un taglio scarlatto su un fondo neutro, una ferita che si apre e che preannuncia come un oracolo quello che la narrazione ci dirà, seguendo l’ossatura del mèmoir, lambendo l’auto-fiction, sfiorando una forma diaristica incandescente.

Transito di Aixa de la Cruz (Giulio Perrone Editore) inizia sollevando il sipario sul corpo: l’autrice, trentenne, registra e racconta i suoi traumi con una precisione letteraria, avvenimento dopo avvenimento: l’incidente stradale della sua migliore amica, il rapporto con un biopadre, gli studi e i progetti letterari, l’attrazione e i rapporti complicati con le donne della sua vita, le fotografie del suo tempo con i collettivi, i locali, la femminilizzazione della politica, i fatti di cronaca.

Ci si mette comodi: si inizia a leggere perché si empatizza con le ferite e le cicatrici dell’autrice in quanto ciascuno di noi ne è portatore, seppur con le dovute differenze. E si viene risucchiati: perché le descrizioni del dolore e del corpo si mescolano alle parole che l’autrice sceglie con cura. Il linguaggio di Aixa de la Cruz è intriso di dolore e di reazione, contemporaneamente: l’autrice scende a fondo, racconta la mappa del suo vissuto dando voce al corpo e a tutto ciò che ci rimane scritto, scolpito, dall’infanzia all’età adulta, riuscendo in un’alchimia preziosa: la parola scritta si interseca con il corpo, quindi con la materia, e ci rende “storie corporali”.

“Non mi sfrego né mi idrato il viso e l’aspetto della mia pelle è lo stesso di prima. Mi lascio crescere le unghie che si spezzano da sole, immagino per mancanza di ferro. Dormo in posizione fetale e in questa posizione non sembro un esemplare adulto della mia specie. Sono asessuato come un bambino. Un bambino selvaggio. Ma che sanguina”.

Uno dei centri nevralgici del romanzo sono comunque i rapporti. Non solo quello col corpo, sempre presente e dominante, ma anche quello con la madre, con l’ex marito, con le amiche, con il sistema sociale, l’attualità con i suoi eventi come il terremoto del 2017 a Città del Messico. E ogni rapporto scandisce una parte del libro: pervaso da una ricerca, in transito (appunto) tra le città in cui  Aixa ha vissuto o è scappata,  non smette di intessere e di cercare e ci ricorda che “si vive meglio nell’epicentro del terremoto altrui che in mezzo alla propria scossa”.

L’occhio dell’autrice si sofferma sulle dinamiche di genere della sua generazione con considerazioni spietate quanto autentiche: “la violenza non era la conseguenza ma l’origine stessa del patriarcato, la minaccia che ci rende donne, ossia corpi da sfruttare”.

In Transito la violenza fisica e la violenza sessuale coincidono con la violenza di una società che non crede alle vittime di stupro o che si permette di dire che denunciare un’aggressione una settimana dopo la rende non realmente avvenuta. La narrazione potente di questo romanzo mette al centro la potenza del corpo femminile, anche quando è ferito.

“La prima volta che ho raccontato l’estate delle mie bruciature, l’ho fatto dopo aver osservato che le cicatrici che mi avevano promesso che sarebbero state indelebili stavano invece svanendo”.

Nel romanzo si attraversano i ricordi con la sensazione che siano stati “masticati” più volti dalla stessa autrice: i legami con la famiglia, il non sentirsi ferma in una identità, le barriere morali da abbattere con forza.

Una prova di onestà con sé stessa, ha spiegato la stessa autrice, che non si cristallizza in un “io” che domina tutto (come nei mèmoir classici) ma che anzi, come nei saggi, valuta quello che accade, sia dentro che intorno, come le esperienze di condivisione del MeToo. Transitare vuol dire attraversare e Aixa de la Cruz ha scritto uno straordinario romanzo di “passaggi”.

“Arrossisco a questo passaggio dall’io al noi con cui mi approprio dei pesi di mia madre, ma è l’inizio di qualcosa di nuovo. Ho abbattuto il muro cartesiano, la barra obliqua corpo e mente. Accetto la mia pelle, e accetto la sua lotta”.

Antonella De Biasi

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