Un poetico diario di viaggio, questo bellissimo libro di Emilia Bersabea Cirillo. Racconti brevi ma folgoranti, che colgono le fondamenta, i sogni e le impossibilità dell’Irpinia, suddivisa in tanti paesi centri piazze terre smottate e svuotate che gridano l’assenza di vita, e sono ormai diventati luoghi dell’anima. Disseminati fra le pagine, sono molti disegni di Giovanni Spiniello – artista di Avellino, come Emilia – che sono in perfetto accordo con i racconti: tratti di energia tesa e distrutta ma potentissima in questo contrasto, come l’Irpinia che ci è restituita ne Il pane e l’argilla. Emilia la percorre non soltanto con l’occhio partecipe di chi guarda la propria terra, né solo da storica, da architetta talvolta, addirittura pianificatrice del territorio, ma tutte queste prospettive si raccolgono nel suo passo di viaggiatrice. Assurdo forse, perché l’Irpinia è un territorio in fondo circoscritto e limitato, fatto di piccoli borghi? Certo che no. Anzi. Nell’epoca nostra, dove tutto è raggiungibile, scoperto sullo schermo, ricreabile dalle dita che digitalizzano sulla tastiera, il viaggiatore è un bene, la più preziosa testimonianza: perché si muove lento, di pietra in pietra, raccogliendo i volti le voci i dialetti le storie di chi incontra, e facendosi carico del peso della memoria. Alla voce narrante, a volte io, a volte noi, e altrove collettività, interessa soltanto essere occhio che coglie e cuore che pulsa, scorrendo fra resti e macerie per recuperare, almeno nelle parole, l’inconcluso. Darvi se non un futuro, almeno un’immagine che lasci un’orma nel tempo, per poi andare a raccontare agli altri, che non sanno, di questa vertigine dello sguardo.
Dopo esser stata sventrata dal terremoto, l’Irpinia è diventata due: la terra e il suo vuoto. Tanto più viva perché piano piano sta scivolando fuori dal tempo. Il crepaccio che l’ingoia non è solo la catastrofe che l’ha colpita, ma anche lo spopolamento progressivo, la fuga dei giovani. Ormai è «un mondo in trasloco», come dice Emilia. E chi resta, perché anziano o legato alla terra, lo fa «per accudire un ricordo».
Abbattere e ricostruire era lo slogan del dopo terremoto. L’Irpinia un po’ si è piegata al suo destino inclemente, un po’ non è riuscita a lasciarsi ricoprire tutte le ferite con il cemento. E oggi se ne resta immobile e livida, dimenticata da tutti: «il paese che ho visto oggi non può essere la vera Calabritto d’Irpinia. È solo uncorpo violato, uno scheletro che non sa proteggersi, che non sa darsi un colore, un ricordo, che sopravvive alla sciagura, tentando di non farsi altro male. Il terremoto ha distrutto, ha illuso, ha scoperto un velario che si è richiuso di colpo. Cosa è restato, di tutto questo?»
«Nui», rispondono gli anziani custodi delle rovine, «fino ‘a quanno campammo». E non possono spostarsi altrove, perché se costretta a forza nel nuovo e nel ricostruito, tutta la congrega viene colpita dalla stessa malattia organica: il «Non mi trovo».
E pure, nulla come lo scheletro di un luogo addita allo spessore della sua carne. Sarà per questo che l’Irpinia conserva ancora traccia così prepotente della sua storia, delle sue leggende. Il terremoto non ha solo distrutto, talvolta ha scoperchiato la terra e l’ha trasformata in un reliquario della memoria. Uno scavo archeologico a cielo aperto. E comunque, non diventerà mai monumento, perché l’Irpinia è «unica e dispersa». E non acconsente a lasciarsi raccogliere del tutto, anzi, anche alla viaggiatrice che intende raccontarla chiede di perdersi fra le sue rovine e, forse, di attraversare la propria morte, perché questo è accaduto ai luoghi, che sono stati cancellati prima del tempo. Ecco spiegato perché si riesce a vivere in Irpinia solo «scappando da lei».
Mentre chi vuole lasciarne testimonianza, deve sprofondare come Dante in un inferno sotterraneo, attraversare la porta e cominciare il viaggio fra le anime. Nel bellissimo racconto, «La Mefite», i custodi delle rovine una volta tanto vorrebbero dissuadere la viaggiatrice dalla sua intenzione di avventurarsi in «quel pozzo ribelle di terra chiamato Mefite», che odora di «morte possibile»: «’Cca là si more’ lo urla un contadino, vedendoci imboccare la strada che da Rocca San Felice porta alla Mefite. Vuole sapere perché vado. ‘Che devo fare’ in una giornata senza vento come questa».
Emilia ha uno stile che si confà perfettamente ai ritratti di paesi d’Irpinia, perché scrive come se dovesse dare aria a un moribondo. Ma niente di lugubre in questo. Anzi. Trova le giuste canzoni, il ritmo adeguato per riunire tutti i paesi devastati attorno alla voragine che li ha divisi, come parenti vicini e lontani che accorrono al capezzale di qualcuno molto amato. Così anche quella veglia dolorosa si riempie di vita, diventa quasi una festa in cui si snocciolano ricordi, ci si dedicano attenzioni, e vien voglia di stare insieme.
L’Irpinia, dunque, come celata culla dell’anima, dove tutto è in potenza e tutto è perduto. Terra d’addio. Impossibile non ricordare Le città invisibili di Italo Calvino, libro in cui ogni città è prima di tutto un filo dipanato nel labirinto del desiderio, tensione verso lo spazio dove le mani più che le cose sfiorano il loro confine con l’invisibile. Un luogo si può amare – raggiungere mai. Ma non per questo rimanda a qualcos’altro. Non metafora. Non richiamo. Una sorta di casa piuttosto, di radice, semente di esistenza che va ridefinita di giorno in giorno.
Monica Pavani
«… questa è l’Irpinia interna. Siamo questo struggente ballo d’amore e questa musica sempre uguale, come un bolero, che viene da respiri lontani, siamo il caglio, gelatina e pepaine. Questo è un alfabeto con cui parlare, con cui esprimerci.»
Il libro nel 2000
Emilia Bersabea Cirillo
Il pane e l’argilla
Filema, 1999
pp. 160, L. 25.000
Il libro attualmente è fuori catalogo
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