Nei vicoli più dimenticati di ognuno, risiede l’infanzia che abbiamo vissuto, sulla quale abbiamo negli anni formulato un’idea che riteniamo veritiera. Michele Mari riporta quell’infanzia sulla pagina, nel libro Tu, sanguinosa infanzia, pubblicato da Einaudi nel 2009 all’interno della collana L’Arcipelago Einaudi.
Mari inserisce undici racconti all’interno di questa raccolta, che è d’altra parte il mio primo approccio alla scrittura di un autore che ho osservato con timore per diversi anni prima dell’ampio respiro preso quando ho aperto questo testo.
In verità i racconti sono forme narrative menzognere, che illudono il lettore di una loro intrinseca semplicità che in realtà non hanno. Nei racconti possono celarsi universi che l’autore ha sapientemente inserito al suo interno, proprio come ha fatto Mari.
La narrazione legata all’infanzia è foriera di significati altri che prendono forma attraverso la sua voce.
Nei racconti, Mari erge gli oggetti a protagonisti della storia: da essi prendono vita epifanie continue, e l’infanzia assume valore solo rapportata ad essi, come se soltanto qui risiedesse il ricordo, la giustificazione del ricordo.
Ne I giornalini, racconto d’apertura, un uomo ha da poco scoperto che diventerà padre. Se il lettore medio si aspetterebbe una reazione – di gioia o disperazione – relativa alla responsabilità dell’imminente ruolo genitoriale, Mari spiazza sin da subito riponendo la riflessione su di loro, sui giornalini che danno il nome al racconto:
«Quando seppe che sarebbe diventato padre, il professor *** si chiuse a lungo nel suo studio per riordinare le idee. Nell’incertezza del futuro uscì da quella stanza con una certezza: i giornalini, i cari giornalini della sua infanzia dovevano essere messi in salvo.»
Giornalini elevati a forziere del tesoro, a custodi dell’infanzia che va messa in salvo, appunto, dall’imminenza del futuro. Nella loro essenza risiede l’anima del bambino che li ha letti e riletti negli anni, un bambino a cui l’uomo non può smettere di pensare per non compromettere la sua stessa sopravvivenza. Se apparentemente l’episodio può inorridire l’occhio ipocrita, dall’altra colpisce per la sua verità nuda e cruda: è nel rapporto con le cose che hanno accompagnato la nostra crescita che rinveniamo il valore dell’infanzia e di ciò che siamo diventati. Senza quelle cose, tutto sembra non possedere il suo significato.
Ma in questa dissertazione risiede la contraddizione dell’uomo, esasperata nel racconto L’uomo che uccise Liberty Valance. Qui, in un registro mutato e diventato più tragico, un dialogo tra padre e figlio ricorda che il nostro attaccamento alle cose è destinato ad essere fallace, dimenticato in virtù del nuovo. In questo dualismo tra passato e futuro muove i suoi passi l’uomo, talvolta incespicando, spesso sbagliando.
«Vedi, Michele, non si è mai abbastanza morbosi perché per quanto si viva del passato c’è sempre qualcosa di ineludibile, nel presente, che ci plagia e ci umilia. Distrazioni, pulsioni, scuse buon per scrollarsi di dosso un po’ di coperte, così quell’aria chiusa in cui consistevi riceve aria nuova, ciao consistenza, nuove scuole, nuove case, nuove luci e noi intanto abbiamo dato il culo a chiunque, a furia di darlo ci siamo persi… ma basta che ci capiti in mano una nostra fotografia di quando avevamo sette o dieci anni per scioglierci di commozione come ulissidi che rivedan la patria, ecco chi sono gridiamo, quello lì sono, volevo ben dire, io sono sempre quello. Ma intanto, hai dilapidato.»
Non soltanto gli oggetti, ma anche le abitudini sono protagoniste di Tu, sanguinosa infanzia. Lo sono sicuramente quelle della madre e del figlio protagonisti di Certi verdini, in cui il racconto della solerzia con la quale creavano e disfacevano puzzle dalle fattezze sempre più complicate Mari ne approfitta per inserirvi una dissertazione filosofica non alla portata di tutti. Lo sperperare il tempo per dedicarsi ad attività inutili come comporre puzzle è ciò che conferisce valore all’uomo, perché è qui che risiede la scelta di rinunciare ad incombenze ben più importanti.
L’intero apparato dei racconti è sostenuto da una base filosofica che è, forse, il motivo per cui Mari spaventa: sicuramente il motivo per cui ha spaventato me. Ma non solo. A questo si aggiunga un uso squisito ed estetico della lingua italiana, che l’autore padroneggia a livelli inauditi. Le parole sono ancelle al suo servizio, che assumono di volta in volta sembianze diverse per prestarsi al fine dell’autore.
Sembrerebbe, imbattendosi in una delle sue forme espressive più alte, di vedere alternati il sacro e il profano: ma la genialità sta proprio nel fatto che l’oggetto di questi racconti sia sacro tanto quanto lo stile che li ha narrati.
Giovanna Nappi
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