Siamo presumibilmente nella Costa d’Avorio sotto un sole cocente e bugiardo.

Dopo essere stata soffocata dalla colonizzazione francese ora questa terra, ottenuta l’indipendenza ma governata da uno Stato fantoccio dal partito unico, trattiene il respiro e cerca di arrivare alla fine della giornata perché non ci sono le condizioni per il futuro, neanche a immaginarlo. I quartieri bianchi, con i loro edifici a più piani e le loro beate serenità, convivono, in un singolare contrasto, con quelli neri addomesticati dall’indigenza e dalla facile seduzione e invasi da persone che arrivano dai paesi vicini richiamati dalla promesse del post-colonialismo.

In questo contesto cittadino troviamo un uomo profondamente solo, un malinké, Fama Dumbuya. Forse qui conviene aprire il nostro sguardo e inseguire quest’uomo che cammina con i piedi di piombo, la notte nel cuore e l’ombra negli occhi, e la cui esistenza si fa sismografo e testimonianza di molte altre vite che su quella costa africana si trovano doppiamente strappate e mutilate.

Ultimo discendente legittimo di una dinastia di re guerrieri che, abbandonata l’infanzia dorata al villaggio ma non quel senso di appartenenza ad una stirpe regale che richiede esempio e rispetto, trascina sé stesso tra una cerimonia funebre e l’altra perché queste, dopo l’indipendenza, sono le uniche occasioni per guadagnare qualcosa. Con l’elemosina. Lui che era stato un commerciante di successo quando ancora c’erano i francesi. Ora, quando siede sulla stuoia necessaria al rito è fatto spesso oggetto del dileggio della generazioni più giovani o di quelli che lui chiama i ‘figli dei cani’, gli ex schiavi, sentendosi sempre di troppo come il relitto di un passato che non esiste più.

«Vedere Fama correre in quel modo per i funerali faceva sentire una decadenza e una vergogna immensa, enorme come quella della vecchia pantera sorpresa a contendersi le carogne con le iene»

Le cose non gli vanno meglio a casa. Vive con una moglie, una donna fiera e infaticabile, che – nonostante tutte le magie e i riti di un famoso marabutto a cui si sottopone ogni giorno – non riesce a dare a Fama un figlio, quella patente di ingresso e credibilità nel futuro per perpetuare la propria stirpe. E le accuse reciproche di sterilità, pure nel rispetto del sacro vincolo del matrimonio, sconvolgono quel perimetro domestico dove sono sempre accesi i fuochi per preparare la zuppa. Zuppa che questa straordinaria donna, fortificata dagli eccessi rituali della sua gente, che ancora la minano nella sua femminilità più profonda, porta agli operai e ai mendicanti del porto perché possano mangiare qualcosa, anche a credito, in nome della fratellanza musulmana.

Intanto il mondo moderno o apparentemente tale che li circonda ricorda loro ogni istante:

«La politica non ha occhi, né orecchie, né cuore; in politica verità e menzogna indossano lo stesso perizoma, giusto e ingiusto camminano mano nella mano, bene e male si comprano o si vendono allo stesso prezzo»

I loro pensieri si intersecano in un universo che appare ai loro occhi oramai capovolto o addirittura prono davanti a quella politica che si professa di ispirazione socialista ma che non è altro che scarto di importazione occidentale. Fama non si sente molto diverso dalle ombre affamate del porto che, sotto tutti i soli e sopra tutti i suoli, non possono che vivere sempre e solamente di avanzi. A meno di non scendere a facili compromessi con le nuove autorità in cui gli uomini, di ogni latitudine, riescono sempre a trovare. Fama ha la sua dignità che tuttavia non gli toglie la fame. In fondo si sostenta grazie alle mille fatiche quotidiane della moglie ma sente costantemente messo in discussione il suo essere uomo: non solo non governa la casa ma non la fa neanche progredire, schiavo della disillusione e dell’indolenza. Non gli restano che l’insonnia o sogni nei quali si immagina un guerriero a cavallo che attraversa, incurante dei pericoli, la savana e corre ardimentoso verso una capanna dove lo attende una moglie prolifica.

Dal canto suo Salimata è riconoscente a Fama per averle dato rifugio quando era in fuga dal proprio villaggio, ha sempre parole di incoraggiamento in un domani migliore per chi la incontra per strada ma sa che una donna senza maternità come lei, nell’universo mentale della sua gente, manca più della metà della sua femminilità, è un essere incompleto. Anche lei sogna: panieri colmi di neonati con sempre quel genio fatale che la perseguita e che le ha inflitto l’infertilità. Ma è come se si sedesse ogni volta su un termitaio perché i sogni diventano incubi quando riaffiorano i ricordi della escissione, dello stupro e della reclusione, di quel rituale arcano e brutale al quale è stata sottoposta tra la sua gente e che l’ha cambiata, per sempre, nel suo rapporto con gli uomini.

Poi arriva la notizia di un altro funerale, questa volta dal ‘regno’ in cui il cugino è mancato ed è richiesta la successione al ‘trono’. Fama decide di lasciare la città e partire. Lo deve al suo rango e al suo popolo. Si è sempre sentito il loro principe. Cosa troverà in quelle terre, che oltretutto appartengono a un altro Stato con quelle frontiere che vengono tracciate di netto, separando intere famiglie e identità, dopo tanti anni? Cosa erediterà? Tornerà in città da Salimata?

I soli delle Indipendenze (Les Soleils des Independences, 1968) di Ahmadou Kourouma, il più celebre scrittore ivoriano, torna in libreria in una nuova edizione e/o, nella scrupolosa traduzione di Monica Amari e cura di Mario Bensi. Un romanzo potente, vitale, ricco di rumori e rifrazioni, specchio delle utopie e distopie del post-colonizzazione, dal tono ironico e amaro. Un testo che dà voce sia all’illusione del sole ‘radioso’ dell’indipendenza sia a quegli uomini, in fondo soli, che sono costretti a maneggiare una libertà confiscata rapidamente da nuovi padroni.

In queste pagine parla una lingua francese innervata di malinké e di tutta la sua cultura dispersa, in un continuo affastellarsi di vecchio e di nuovo. Il nostro sguardo incrocia non solo l’attualità di un mezzogiorno cieco, di una stanza oscura della Storia, nella quale molti paesi ancora oggi si trovano, ma anche una nuova linfa in cui cogliere i toni e le vibrazioni calde del proverbio antico.

Claudio Musso

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