Ci sono scrittori che usano la letteratura per anticipare mondi solo apparentemente immaginari: Sandro Veronesi lo dice in una intervista alla Stampa riferendosi a Houellebecq, e invece potrebbe parlare di se stesso, perché con Il colibrì va così.

Di pagine da annotare nel suo ultimo romanzo pubblicato dalla Nave di Teseo ce ne sono tante, è un romanzo che incanta chi cerca nella scrittura bellezza e un piccolo specchio della propria esistenza. Tanti, i passaggi di emozioni intime e familiari, tonfi al cuore che fanno bene e male, tutto insieme. Tanta roba, tanta profondità. Eppure se su qualcosa in particolare bisogna concentrarsi, non si può prescindere dalla pagina che vede Marco Carrera, il protagonista ormai nonno senza essere più padre, profetizzare il duello feroce e finale tra verità e libertà. Il monologo, che è un discorso d’amore e fierezza dedicato alla nipote Miraijin, “l’uomo del futuro” per la giovane madre che l’aveva partorita, è il monologo dei nostri giorni. Non lo è solo nelle intenzioni, apocalittiche forse, dello scrittore, ma lo è negli imprevisti esiti del nuovo quotidiano che ha colto tutti alla sprovvista. Anche e soprattutto per lo smarrimento che produce a ripensarlo adesso, il discorso così infuocato e certo di Marco Carrera.

Prima di adesso, era chiaro da che parte stava la ragione nello scontro verità–libertà. Lontano dai giorni di costrizione a casa, tutta la tensione politica e civica della previsione del nonno alla nipote è un brivido che smaschera orrori cosmici e ovvi, pochezza e strafottenza dell’essere umano. Prima di adesso, prima di ritrovarsi in una sorta di reclusione di massa, il tifo nel conflitto verità–libertà non può che accendersi per la prima, perché la seconda si è smembrata, scrive Veronesi, in infiniti significati che sono infinite pretese, infiniti egoismi, infinita brutalità. Poi accade all’improvviso che nella vita senza letteratura la libertà perda fiato, non abbia all’apparenza voce e lo spettro dell’incertezza ingessi anche la possibilità degli istinti primitivi. Tutti dentro, tutti a casa, tutti schiacciati dalla paura di morire che si tramuta in odio e accuse e veleni nei riguardi di chi oltre alla libertà dell’aria spesso non ha nient’altro. E allora il dubbio: non è che Veronesi ha sbagliato a spingere a parteggiare solo per la verità? Non conta forse e sempre di più la libertà?

E invece il coraggio, che ha avuto (perché per ridimensionare il concetto di libertà ci vuole coraggio) a mostrare la deriva presa dalle declinazioni di libertà, trova forza e consistenza in quello che sta accadendo adesso che c’è una libertà (apparentemente?) ridotta. Il suo elenco delle libertà degli orrori ritorna in questi giorni che s’è scelto di chiamare sospesi: chiacchiere senza sostanze, insulti, diffidenza, menefreghismo, caccia agli untori, divieti e regole mai per sé, solo per gli altri. Con l’aggiunta che ogni cosa stavolta, ogni brutta libertà nuova è in nome e per conto della verità suprema, o, meglio, in nome e per conto del terrore di una verità che nessuno sa capire e nessuno possiede, perché forse nemmeno esiste.

Il colibrì è un romanzo poderoso in questa pagina, titanico; nelle altre è tra i romanzi più belli di sempre degli ultimi anni. È un libro pieno che riempie il cuore e molto spesso gli occhi di lacrime. Marco Carrera è un uomo giusto nella sua fragilità. È l’uomo dell’abbraccio, in entrata e in uscita. La vita dell’oculista, che da piccino cresceva poco e che sua madre si ostinava a vedere bello come un uccellino, è una vita di morte. La morte delle persone più importanti, la morte che mai un genitore dovrebbe incontrare. È così forte la sofferenza che Veronesi la descrive per sottrazione in un piccolo puntualissimo viaggio linguistico che mostra nella nostra cultura il vuoto della parola: manca il termine esatto del padre o della madre cui muore il figlio. E ancora la morte nel “Colibrì” diventa il diritto di sceglierla, come dove quando e anche perché. Marco Carrera, che sempre è un elegante, pacato incassatore, diventerà un gigante che non si vorrà vedere andar via. Non si riuscirà a non dirgli, a differenza dei personaggi che lo circondano nel pomeriggio dell’addio: non andare, aspetta ancora un po’. Perché alla fine l’istinto che prevale nel romanzo di Sandro Veronesi è di rimanere abbracciati alle sue pagine.

Sabrina Varriano

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