Siamo a Roma in un caldo maggio del 1900. Mario Parigi, un bambino dalla fronte prominente, gli occhi grandi, morbidi, pieni di lenti enigmi, viene festeggiato, secondo un freddo rituale, per il suo settimo compleanno da una madre dall’animo dimesso e da un padre autoritario dell’alta borghesia che vive nei pressi di Villa Borghese. Al piccolo viene concessa poi una passeggiata al parco con la nutrice che da lontano lo controlla.  Intanto la sua mente, sempre pungolante di domande e di pretese, rimugina sul fatto che, non essendo ancora le due del pomeriggio, orario nel quale, così gli è stato riferito, è venuto al mondo, non è ancora nato e quindi non esiste ancora. Con questo guizzo di consapevolezza si avvicina agli alberi con fare da esploratore, comune a molti bambini, li enumera uno per uno come se facesse un conto alla rovescia. E, esattamente alle due del pomeriggio, il suo corpo si immobilizza in una contemplazione abbacinata e si riscopre un altro da sé, mentre la natura, cosciente e complice, partecipa e assiste all’evento fantastico. È in questo passaggio iniziale de Il figlio di due madri, pubblicato nel 1926, che Massimo Bontempelli getta al lettore e al mondo culturale dell’epoca il suo guanto di sfida e di nuove prospettive. Fedele alle linee del realismo magico, dà vita a quella nuova Letteratura della Terza Epoca, già teorizzata sulla rivista ‘900’ da lui fondata con Curzio Malaparte, nella quale l’effetto straniante per il lettore non è più la sorpresa ma il surreale, con la commistione di realtà e sogno. Elementi, questi, che dato il periodo storico di pubblicazione del testo, assumono un carattere sovversivo nei confronti dell’ideologia dominante con le forme del fantastico.

Mario infatti, ridestatosi, dichiara di chiamarsi Ramiro e cerca la propria madre e la propria casa, mentre la prima madre, Arianna, lo guarda attonita, convinta di essersi smarrita in un labirinto. Ramiro, con il suo nome esotico e inusuale, così diverso dal canonico e scontato Mario, peraltro molto simile a quello del padre (Mariano), è anche in grado di fornire l’indirizzo della propria casa nel cuore di Trastevere, che per i Parigi rappresenta un’altra Roma. Ed è a questo punto che Bontempelli, nel prosieguo della narrazione, si colloca all’esterno e, come Serafino Gubbio Operatore di Pirandello, osserva e riprende le azioni e reazioni dei protagonisti e dei loro ambienti. Ma anche le nostre. La ‘perdita’ di Mario fa parte di un suo preciso copione: l’autore vuole minare le basi della famiglia tradizionale della sua epoca perché questa possa ripensarsi e, come aveva già fatto Kafka quindici anni prima ne La metamorfosi, recide bruscamente il passaggio di eredità dai padri ai figli. Non sembra dunque un caso che, nell’affrancarsi dalla soffocante, kafkiana, tradizione, Mario dica a sé stesso: «ma tra un’ora nasco, e allora comincio a fare quello che voglio». Un bambino che si trasforma in un altro e del precedente non ricorda più nulla sembrerebbe ad una prima lettura – e da più parti viene così interpretato – prima come una sorta di allucinazione e poi di reincarnazione o forse Bontempelli allude ad una fuga da una realtà che sta stretta e, approfittando del surreale che può porre al riparo da certe censure, si concede una nuova vita perché quella attuale gli sta stretta?

Per placare l’isteria ribelle di Mario dopo la sua nuova presa di coscienza ma anche per un profondo affetto Arianna decide di portare il figlio o comunque quello che ha considerato tale prima dell’incontro con gli alberi e chissà con che cos’altro, nel quartiere popolare di Roma. Una volta là, Ramiro si calma, ritrova il suo ambiente, si muove consapevole tra le vie, tra i laboriosi negozianti che, riconoscendolo, gridano al miracolo, come se fosse ritornato dopo un lungo viaggio nell’Ade, si riappropria della sua stanza e dei suoi amati giochi, mostra il ritratto di una donna avvenente, sua madre, e una piccola cornice in cui è raffigurato lui stesso, episodi, questi, che mandano in cortocircuito la mente di Arianna. La donna inoltre si priva della parte parlata della sua maternità e smette di chiamarlo ‘Mario’ per non urtarlo, nella speranza di sgrovigliare quanto prima il cordame confuso che ha improvvisamente dato una stretta soffocante alla propria esistenza. Al tempo stesso percepisce che quello del figlio non è un vaneggiamento passeggero perché questi si considera Ramiro e si comporta come tale con una tale convinzione e padronanza di sé da risultare irrecuperabile. Ma intanto lo lascia fare. L’autore apre il sipario sull’effetto fantastico, ci lascia certo attoniti, ma poi tutto quello che leggiamo nelle pagine successive è intessuto da realismo con nuove comparse e scomparse.

Giocoforza la narrazione di Bontempelli crea attesa nei lettori nei confronti dell’altra madre. Così, riannodando gli antefatti, ci racconta che Ramiro è morto sette anni prima alle due del pomeriggio nel momento stesso in cui viene alla luce Mario e che l’altra madre, Luciana, vive solitaria vicino a Terracina nei luoghi che furono di Circe e torna ogni anno nella casa a Trastevere, dove tutto è rimasto intatto, per l’anniversario della morte del figlio e per ricordare a sé stessa di essere ancora madre. Perché la potenza dell’amore materno spesso si nutre anche del ricordo. Luciana, informata con un telegramma, torna precipitosamente a Roma, con la sicurezza disarmante che, dopo tanta attesa, il suo piccolo è ritornato. Sebbene siano trascorsi sette anni Ramiro non è cambiato e, in fondo, neanche lei. Ma nuovi scenari la attendono perché accanto al bambino c’è un’altra donna che dice di essere sua madre e per Luciana, la cui curva biografica è sempre stata piuttosto movimentata, è un’altra sfida da affrontare. Tra l’altro in pochi sollevano il dubbio, logico, che se Ramiro ha ora quattordici anni come fa il bambino che si presenta di fronte a Luciana, e che subito abbraccia con slancio, ad avete la corporatura di uno di sette?

Osserviamo Luciana Veracina. Di origini austriache, ha vissuto un’infanzia solitaria ma dorata a Vienna con il padre a contatto con la cultura della capitale ma non con le sue persone, introiettando con il tempo tendenze irrequiete, immaginose e romanzesche. Poi si trasferisce a Roma, cambia nome, cancellando così una vita passata di turbolenze amorose finite nel suicidio del compagno, il padre di Ramiro, dalle scogliere del Circeo. Nel nuovo cognome, che sceglie in omaggio al compositore Veracini che tanto aveva amato quando suonava il violino, si annida, nelle intenzioni di Bontempelli, una chiara antitesi della famiglia borghese, di cui sono simbolo i Parigi, e della vecchia letteratura, nei confronti della quale questo romanzo si pone come la svolta. Luciana infatti appare come madre perturbante e come creatura verace che, attraverso una rilettura magica della realtà, è in grado di raggiungere una verità superiore. Perso il figlio, si autoesilia e vegeta in una camera d’albergo al Circeo osservando quel masso tra gli scogli che si frappone alla vista del panorama e che le ricorda le sue responsabilità. Ma poi con una calma sconvolgente ritrova Ramiro perso sette anni prima come se qualcuno per un attimo avesse spento la luce e, con un motivo in più per vivere, fugge ai richiami di quello scoglio maledetto. Luciana è la donna della perdita, degli affetti familiari, del compagno e del figlio, ma non perde la sua personale guerra con la vita. E la forza di questo romanzo sta proprio nel ritratto di questa figura che, insieme al suo contraltare, Arianna, sono l’asse portante e uno degli aspetti più interessanti dell’opera.

E poi c’è Arianna. La quale difetta, certo, delle esperienze di vita di Luciana, ma – con il precipitare degli eventi – non si eclissa, reclama il suo posto perché quel figlio l’ha partorito ed è sempre stata parte del suo mondo. E forse è l’unica cosa che, nella stretta delle convenzioni borghesi, sente veramente propria. È una donna che agli occhi di Luciana assume dapprima i connotati della rivale o anche dell’intrusa per poi diventare gradualmente l’alleata contro il resto del mondo in nome di quella maternità che è più forte di tutto anche della tentazione del possesso che, in fondo, hanno tutte le madri per i propri figli. Va aggiunto che le due donne rappresentano due maternità, entrambe interrotte, di segno opposto: quella di Luciana ha smesso di respirare, si è fatta cianotica, ma ora ha ritrovato l’aria per tornare a vivere, quella di Arianna si è persa sulla terra, perché Mario continua a considerarsi Ramiro e Arianna è per lui solo un’amica premurosa, ma non nel proprio cuore e nella propria carne perché il filo è ancora intatto e può consentire l’uscita dal labirinto. Tuttavia, a dispetto delle alleanze, sul volto di Luciana, nel punto centrale dei suoi occhi, dove la volontà umana è segnata più duramente, mentre non perde di vista il suo Ramiro, c’è una determinazione ferma che sfiora la ferocia. Una è calma e parla con parole ponderate come sa chi sa il fatto suo e non si aspetta grosse sorprese, l’altra le cerca disperatamente perché in fondo la sua vita è stata una striscia di velluto monocolore, senza pieghe, dove ad un certo punto si mostra uno strappo inatteso.

‘Donna-madre’ Arianna, perfettamente calata nel ruolo richiestole dalla società maschilista, ‘donna-crisi’ Luciana, emancipata e inquieta, fuori da qualsiasi incasellamento che ha sviluppato, rispetto alla prima, quell’immaginazione che le ha permesso di affrontare la vita e costruirsi una propria identità. L’ulteriore differenza sta nel fatto che Arianna, senza il figlio, su cui ha riversato tutti i suoi affetti e energie, non è capace di pensarsi come soggetto indipendente. E sarà proprio Luciana, la rivale, la sua figura di appoggio. Emblematici su questo aspetto sono i dialoghi tra le due donne sulla loro esperienza di madri quando Luciana dichiara che, a differenza di lei, Arianna “non l’ha visto morire”. Il peso di questa frase, insieme alla supposta reincarnazione di Ramiro in Mario, ci trasporta in un’enclave sospesa sulla realtà, senza per questo scomodare il demoniaco, che rivela il potere e la fascinazione della donna del Circeo sull’altra madre, quasi una sacerdotessa che respira e racconta l’altro e l’altrove:

‘’La parola di Luciana sonò nella stanza come una voce d’oltremondo: come un giudizio, un’apoteosi, un vangelo. Tutta l’aria ne fu scossa: la luce parve crescere smisuratamente, non rimanere più un angolo d’ombra, le quattro pareti allontanate verso silenziose profondità, aprirsi la volta contro un cielo ove non era più notte né giorno. La piccola stanza di Luciana Veracina è diventata un Empireo. Luciana tutta vestita di nero posava in mezzo a quella immobilità splendida, come una divinità austera e sottile.

La povera Arianna sentì il prodigio’’

Proseguendo nel racconto, la questione di un bambino conteso da due madri, certo, non può rimanere circoscritto tra le mura domestiche. Molti hanno sentito e visto. E la notizia valica anche i confini nazionali e finisce sulla carta stampata. Roma si divide: da un lato ci sono i fieri trasteverini che credono che Ramiro, uno di loro, sia resuscitato, dall’altro i ludovisi dei quartieri borghesi che rifiutano ogni fede nel miracolo proclamando a gran voce la realtà di Mario e annunciando scandali e finimondi (ne sa qualcosa la figura diafana del padre di Mario che subito approfitta delle sue conoscenze nelle alte sfere). Un dissidio che nel testo rimanda allo scontro tra l’elitarismo dell’arte ottocentesca e quella popolare novecentesca che, attenta al contemporaneo, si nutre delle sue istanze senza affidarsi al giudizio di una lontana posterità. Intanto le madri vengono raggiunte da lettere di società straniere che si occupano di reincarnazione, di spiritisti, di numerose altre madri di un’opinione pubblica divisa, dando vita ad una vera e propria fiera dell’umanità curiosa e morbosa (rispetto ad allora i tempi di oggi non sembrano essere cambiati), un clamore che offende Arianna nel suo pudore borghese e che lascia indifferente Luciana. Ramiro o Mario al centro, intorno le due madri con la loro costante presenza e protezione ma soprattutto un mondo corsaro che non intende stare a guardare fuori dalla finestra ma vuole inserirsi negli spazi vuoti che le due donne immancabilmente lasciano.

Bontempelli in questo romanzo, ripubblicato meritoriamente da Utopia Editore dopo anni di oblio editoriale, con un’appassionata introduzione di Marinella Mascia Galateria, ci accompagna con una scrittura visiva che gratta la pelle liscia del realismo con qualcosa di surreale di grande impatto, con abilissimi primi piani sui protagonisti e sulle strade di Roma, nel tentativo, come abbiamo visto, di condividere una nuova letteratura e, al contempo, di affrontare la vita in modo alternativo. L’autore sa bene cosa vogliono i lettori ma gli sottrae l’ultima delizia perché le risposte arrivano solo dal mare il quale a sua volta pone domande a cui non sappiamo rispondere, un po’ per reverenza alla sua immensità, un po’ per timore che ci porti lontano dai nostri credi che sono spesso porti sicuri. E intanto non dimentichiamo che Luciana arriva dal mare …

Claudio Musso

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