Qual è il registro linguistico adatto ad un romanzo? E chi lo stabilisce?
Quanto può il linguaggio ostacolare la fruizione di un testo?
Queste le domande che hanno affollato la mia mente quando la bolla creata da Fabio Bacà è scoppiata e io sono arrivata – frastornata – all’ultima pagina di Nova, romanzo edito Adelphi, finalista del premio Strega e del premio Campiello.
Il libro ha suscitato osservazioni più o meno critiche circa la sua veste linguistica e stilistica: lemmi complessi che affondano talvolta le radici in ambiti circoscritti, quali quello medico, psichiatrico, scientifico, e così via; struttura sintattica prevalentemente ipotattica e, dunque, caratterizzata da periodi molto lunghi, in cui si ha quasi la sensazione di perdersi; periodi intrisi – oltre che di subordinate – anche dei più complessi temi affrontati dalla stessa critica letteraria e scientifica.
Insomma, da questa descrizione – quanto più sommaria e scarna si possa immaginare – il libro sembra quasi erigere un muro tra sé e il lettore.
Per me non lo è stato.
Per molti sì.
Infatti, tanti sono stati gli apprezzamenti e altrettanto innumerevoli sono state le critiche che hanno interessato Nova, animando così il periodo dello svelamento della “settina” dello Strega.
Dovunque è ancora possibile imbattersi nei pensieri di migliaia di lettori rimasti insoddisfatti della lettura, ma anche di centinaia di persone che neanche ci sono arrivate alla metà del romanzo.
Di certo non sono qui a biasimarli.
Alcuni hanno sostenuto che il necessario e continuo ricorso al dizionario costringesse il lettore ad interrompere la lettura. È davvero così? – Lo Zanichelli in alto in libreria ancora mi guarda in cagnesco in attesa che lo apra!
Alcuni si sono addirittura presi la briga di elencare i lessemi indecifrabili disseminati nelle pagine per dar conto della complessità e, eventualmente, redarguire chi aveva intenzione di leggere il libro comodamente distesi al sole – e il dizionario dove lo metti?
Altri hanno biasimato l’autore per la troppa erudizione sfoggiata tra le pagine, venendo meno così a quello che – si dice essere – il dovere degli scrittori: lasciare che i lettori entrino nella storia e si ritrovino.
Lo spaesamento è davvero tale da non ritrovarsi più?
Qui viene in mio aiuto Luigi Matt che si esprime così:
È evidente il diffondersi di un atteggiamento di grande sospetto verso qualsiasi ricorso ad un minimo di complessità di pensiero e di espressione, che viene bollata come attitudine da intellettuali (accusa considerata tra le più gravi).
E ancora, mi ritrovo nelle parole di un autore eccellente come Fabrizio Pasanisi che così scrive:
La narrativa non è necessariamente un fatto lineare, non prevede necessariamente una lingua unica, una sola grammatica, e non sempre una rosa è una rosa, o se un personaggio è orfano e si chiama David Copperfield o Oliver Twist non deve esserci per forza un lieto fine. No, la letteratura non serve sempre a rassicurare, a distrarre, o almeno non serve solo a questo. La letteratura può diventare enciclopedia, dove ogni sapere si mischia, e può diventare specchio in cui ognuno può ritrovarsi, scoprendo persino come funziona il proprio corpo.
Sin dal Duecento, la letteratura acquisisce i caratteri di un linguaggio universale, attraverso cui l’autore racconta una storia caratterizzata da un significato invisibile e imprescindibile.
Ciò accade a prescindere dal registro linguistico e stilistico che, peraltro, è oggetto di continue trasformazioni per influenze dettate dal tempo, dal contesto, dal luogo, e così via.
Tuttavia, anche quelli che noi oggi consideriamo classici e, dunque, pietre miliari della nostra storia letteraria, furono per lungo tempo disdegnati dal grande pubblico per la loro veste linguistica e stilistica. Essa, infatti, non rispettava i rigidi dettami della tradizione e, di conseguenza, non incontrava il favore dei lettori.
Anche se in termini diversi, lo stesso accade oggi.
I romanzi contemporanei si pensa debbano essere preconfezionati in modo da non sortire nel lettore alcun disagio nell’approccio. Il messaggio deve essere chiaro, la lingua deve essere semplice, il numero delle pagine più o meno contenuto, così da non angustiare anime già troppo prese dalla frenesia del quotidiano.
È vero, il libro è il mezzo prediletto da quanti vogliano evadere dal caos circostante per trovare un po’ di quiete; ma non è solo questo.
Il libro è amico – assolutamente sì – ma può diventare anche un nemico da fronteggiare per qualche tempo per poi scoprire che la lotta aveva l’obiettivo di aprirci gli occhi su aspetti che, altrimenti, avremmo continuato ad ignorare. Il libro è un impegno. Il libro può racchiudere in sé il mondo e, in questo modo, contenere – insieme – serenità e scoramento.
Per far sì che il libro ci sveli ciò che serba dentro di sé è richiesta sensibilità e pazienza al lettore.
Nova è caratterizzato da un lessico molto ampio e uno stile raffinatamente elaborato.
I tecnicismi presenti nelle pagine aderiscono perfettamente ai personaggi che lì si muovono e agiscono: le parole più complesse, infatti, riguardano prevalentemente l’ambito scientifico e medico di cui fanno parte i protagonisti della storia: Davide è un neuropsichiatra, Barbara è una logopedista e Tommaso – loro figlio- è un appassionato di astrologia.
Dunque, se cambiassimo la prospettiva e, anziché considerare la nostra, considerassimo quella dei personaggi letterari di Bacà?
Accadrebbe l’inevitabile: il linguaggio e i personaggi aderiscono perfettamente creando un equilibrio perfetto tra la forma e il contenuto.
Infine, concorderemmo sul fatto che l’obiettivo dell’autore non sia stato di certo quello di alfabetizzare la massa costringendola a consultare il vocabolario, piuttosto quello di affrontare tematiche complesse e divergenti attraverso un linguaggio proprio.
Quanto può essere necessario conoscere il significato di «partenogenesi» nell’economia del romanzo?
I contrasti a livello contenutistico che Fabio Bacà delinea nel testo sono ben chiari, al di là della chiarificazione – più o meno immediata – della semantica delle parole.
La me lettrice si è sentita investita dalla potenza delle tematiche affrontate ed è per questo che ha trattenuto il fiato ad ogni pagina, aspettando delle risposte che, alla fine, non si sono esplicitate nel testo.
Bacà, infatti, ha presentato un’altra sfida al lettore: cercare dentro di sé la risoluzione più adatta alla vicenda di Davide, secondo l’idea che – man mano – si è delineata nella nostra coscienza di uomini prima che di lettori.
«Come credi che reagirebbe, se accadesse?»
«Fatti questa domanda, dottore.»
«Come reagiresti, tu?»
Anna Rita Ambrosone
E tu cosa ne pensi?