Siamo nel ’96, in un paesino di mare in Sicilia, vicino Taormina, in cui c’è ben poco – qualche gelateria, qualche lido – attraversato da un’estate cocente: lo scenario perfetto per una dimensione di passaggio, esattamente come quello che due ragazze, cugine tra loro, Annina e Enza, compiranno con ribellione e speranza. Disobbedendo, tradendo il loro mondo “di città”, elettrizzate dai cambiamenti, da chi incontreranno.

Piccole cose connesse al peccato (Feltrinelli, 2023) è l’ultimo romanzo di Lorena Spampinato, autrice catanese, classe 1990, dopo Il silenzio dell’acciuga (Nutrimenti, 2020) proposto da Lidia Ravera per il Premio Strega.

Siamo di fronte a un romanzo di formazione che in realtà è anche molto altro: una costellazione di figure femminili si muovono per creare una trama in cui si contrappongono due mondi, da un lato l’adolescenza (ancora imbevuto dell’odore dell’infanzia, come certamente è per Annina) e dall’altro quello la vita adulta, quella da raggiungere e al contempo contestare nelle figure delle madri. La scoperta di una realtà più arcaica di quella borghese a cui le due cugine sono abituate, il ritrovarsi con Bruna, una ragazza già sbocciata fisicamente che conosce un gruppo di ragazzi che si arrangiano con ripieghi non proprio legali, cresciuti in famiglie disagiate, le prime esperienze legate al desiderio e alla sessualità, l’idea di un potere femminile senza colpe e senza restrizioni.

Come è stato raccontare questa storia dal punto di vista delle figlie, che guardano alle madri con spirito critico, talvolta rabbia…

“A volte è stata dura perché queste figlie hanno uno sguardo ferocissimo e giudicante, mi sono chiesta, pur avendo un figlio maschio se tra un po’ toccherà a me. Pur essendoci una diade diversissima: qui abbiamo due universi femminili molto differenti. Mi sono rifatta ai racconti delle mie amiche, quando io stessa ero una ragazza, le liti e i conflitti erano il modo per emanciparsi, la separazione dalla madre sanciva l’esistenza del mondo individuale. Dire “io non sono come te” è stato il mantra per crescere. Ma, specie le ragazze della mia generazione, si sono poi rese conto di quanto fosse stupida la lotta che avevano con le loro madri e col loro modo di essere, in quanto provenienti da un momento in cui non erano veramente libere, anzi, costrette da condizionamenti. Citando Michela Murgia, le donne per crescere “devono perdonare le madri”.

Quando hai iniziato a scrivere il romanzo? E da cosa sei partita?

“Ho iniziato a scriverlo nel 2020 e ho terminato a dicembre del 2022, due anni in tutto. Qualcosa era nella mia testa: volevo parlare della vita delle ragazze, ne avevo anche paura, ma la storia mi chiamava da un po’. Non sapevo tutto dall’inizio alla fine: mi sono lasciata trasportare dal senso di quello che volevo raccontare”.

Disobbedienza, desiderio, colpa, peccato, salvezza. Un condensato di micromondi, nodi fondamentali, quasi come uno storyboard che guidano il lettore dal disobbedire degli adolescenti, alla salvezza. A quale di questi capitoli ti senti di appartenere?

“È stato un percorso fatto a stretto contatto con i personaggi del mio romanzo, che attraversano totalmente questi cinque “stadi”. Non è stato semplice giungere alla fine, per capire che tipo di salvezza poteva o non poteva arrivare, ricordo di essermi bloccata un po’ prima di andare avanti, ma poi le parti sono diventate armoniose tra loro. Per un po’ ho guardato con gli occhi di Annina, questa adolescente insicura, che non è molto lontana dalla me adolescente, ero una che si metteva dietro gli eventi e osservava intensamente. Ricordo ancora bene i dettagli delle mie amiche, i capelli, le orecchie, le unghie. L’adolescenza era una parte della mia vita che volevo che confluisse in uno dei miei romanzi: dovevo farlo”.

Annina guarda fuori, ma non ha il coraggio di guardare bene cosa ci sia fuori, Enza invece è più audace, ne è attratta ed è coraggiosa: il libro si apre con questa scena d’azione delle due protagoniste che in modo sbilanciato reagiscono ai rumori dell’esterno.

“Annina accompagna Enza, ma la tira giù dal suo affaccio sul mondo: avverte che può essere pericoloso e non solo. Vede il reale come una divisione tra loro, che hanno un rapporto protettivo ma al contempo possessivo. Annina, in questa vacanza sente di esistere solo sotto lo sguardo della cugina.
Ogni sua azione anche nella storia è una richiesta di essere vista: guardami, guardami. Enza ha un focus che si concentra su altro, vuole bene ad Annina, ma non ha bisogno di lei”.

C’è un ribaltamento in questa prospettiva, pur essendoci nel romanzo delle presenze maschili forti e sgargianti: lo sguardo delle donne è quello che conta maggiormente per esistere rispetto allo sguardo dell’uomo…

“Quando ho detto che volevo raccontare le ragazze, ho voluto farlo sotto lo sguardo femminile e non a caso nel romanzo ho inserito Le vergini suicide di Eugenides, che al contrario è narrato da un gruppo di ragazze, quindi un punto di vista maschile, che si concentrano su diversi aspetti, ma non sulla loro salute mentale, sulla profondità dei pensieri, e sappiamo che si suicidano, appunto. Mi sono chiesta: ma se quella storia fosse stata raccontata dalle ragazze, quell’aspetto mentale, sarebbe passato in secondo piano? Secondo me, no”.

Nel romanzo aleggia spesso una componente che tiene insieme le varie esperienze dei personaggi, ovvero il segreto. Cosa è per te il segreto?

“Il segreto a quell’età ha una visione ambivalente. Quando esiste vuol dire che c’è qualcosa da tenere al sicuro, qualcosa che ci differenzia dagli altri e che ci fa sentire importanti, ma, allo stesso tempo, l’idea di condividere quel segreto è qualcosa che unisce per tutta la vita.
Le persone con cui abbiamo condiviso i grandi segreti sono quelle che forse ci hanno conosciuto davvero, hanno toccato di noi la luce e le ombre. Poi lo scambio dei segreti crescendo svanisce, si allenta. Eppure il segreto ha questo valore altissimo, di unione”.

Annina ed Enza arrivano da Catania per passare un’estate ospiti a casa della nonna, non sanno cosa aspettarsi da quel periodo, sono due ragazze ancora molto legate al guscio in cui sono cresciute, l’amica che troveranno lì le definisce “Figlie amate, privilegiate” che non hanno vissuto diverse esperienze o dei traumi che Bruna stessa ha vissuto, che ha un ruolo strategico, che spariglia le carte

“Assolutamente. Volevo che queste due ragazzine arrivassero dalla città in paese con le loro vite ordinarie, borghesi, con le borsette coordinate ai vestiti, con le vite in ordine, le scuole ottime. Bruna è esattamente il contrario: è bella ed è già fisicamente sviluppata, rappresenta la ribellione, la forza di sovvertire le regole e loro, iniziano ad invidiarla, vogliono essere come lei.  Si chiedono se la loro sia stata davvero una vita autentica: Bruna è quella che dice loro che fuori dalla città e dai privilegi, c’è un mondo in cui accadono cose brutte e cose belle, ovviamente, ma intense, che ti fanno crescere. E loro capiscono che è vero: e iniziano a risvegliarsi in questa vacanza, in questa estate iniziatica, e quello che vedono non è tutto rosa e fiori, anzi a volte è spaventoso. Vertiginoso”.

C’è un passaggio bellissimo del romanzo, in cui il termine “cadere” viene ripetuto spesso: Ora però lo sapevamo: esisteva un punto oltre il quale cadevano le cose. Un punto vicinissimo, che si poteva persino sfiorare. Lì cadeva ladolescenza, cadevano le estati. Le giornate abbaglianti. I volti delle persone conosciute, il loro accento. I corpi allo specchio. I desideri, la contentezza. Cadevano gli sbagli. Lodore della pelle. Le ciglia intrappolate dal rimmel. Le macchie sui vestiti. Le biciclette rosse, le biciclette blu. Il respiro acido della notte. I capelli tenuti da mollette. Cadeva la pioggia di agosto. Le scarpe fatte di cenere. I laccetti del costume. Le feste. Il sangue nelle mutande. Le dediche sui tovaglioli da bar. I nomi dei genitali. La vergogna. I baci. I jeans. Cadeva la vita. Cadeva soprattutto la vita, non tornava più”.

“Tutto il libro è costruito sulla possibilità della caduta: è una delle paure più grandi non solo da ragazzini. E il romanzo nasce proprio per questo, l’idea che mi ha spinto (appunto) a scriverlo ha due eventi fondanti. Il primo si svolge nel 1996, che è l’anno in cui la storia è ambientata e nel ’96 io avevo sei anni. Ricordo molto bene che ero al mare, in un paesino che è Letojanni, vicino Taormina, che rivive appunto nel romanzo, gli adulti in spiaggia parlavano con naturalezza di una ragazza che aveva tentato di suicidarsi gettandosi da una scogliera altissima, nel paese di fianco. Io l’ho immaginata subito: l’ho vista come una ragazza volante, edulcorando quello che nella realtà poteva essere accaduto.

Il secondo evento è una conversazione tra Natalia Ginzburg e Alba de Cespedes, in cui la prima dice che anche alle donne capita di cadere in un pozzo, fatto dalla nostre insicurezze e malinconie ed è per questo non riusciamo a raggiungere le cose degli uomini. Alba De Cespedes aveva risposto all’amica Natalia “che questi pozzi siano la nostra forza. Poiché ogni volta che cadiamo in un pozzo noi scendiamo alle più profonde radici del nostro essere umano, e nel riaffiorare portiamo in noi esperienze tali che ci permettono tutto quello che gli uomini – i quali non cadono mai nel pozzo- non comprenderanno mai”. Ecco, mi sono detta che la possibilità che si cada si può verificare, come all’inizio della storia, con Enza che cade. E cadono altre cose. Come una misteriosa lastra di vetro. Del resto il romanzo è pieno di simboli. Occorre dire quindi, che le donne a un certo punto, pur cadendo, tra loro si sono aiutate, sentite.

È accaduto, qualcosa, il riconoscimento della sorellanza”.

La voce e lo stile procede per visioni: vediamo quello che sta succedendo, la lingua è quasi fotografica, presente, ma al contempo guarda indietro, al passato…

“Ho cercato di replicare lo stato di sospensione dettato da quell’estate che cambia tutto anche con la lingua. Mi serviva una lingua che sapesse di qualcosa che non c’è più, che non si può più avere, in uno spazio passato, che ovviamente non torna, ovvero l’infanzia. Una cosa a cui pensavo per mantenere il suono e la consistenza di quella lingua è stato il suo del marranzano, lo hai presente? Quello strumento musicale a ferro di cavallo, in metallo e legno, dovrebbe produrre un suono metallico invece ha un suono molle, elastico. Pertanto la lingua doveva essere dura come una sostanza ferrosa, ma anche morbida. Non ho usato il dialetto, ma sono andata comunque alla ricerca dell’evocazione. Che contenesse la sospensione tra diversi archi temporali”.

Intervista a cura di Antonella De Biasi