L’ultimo romanzo della scrittrice partenopea Floriana Coppola rapisce il lettore fin dal titolo: La bambina, il carro e la stella è, infatti, un titolo fortemente evocativo, che richiama alcuni temi ricorrenti nelle precedenti opere dell’autrice: l’infanzia e l’essere donna; il viaggio e il divenire; il destino e il rapporto tra volontà e fortuna. Tali fili d’indagine si dipanano come mille rivoli al di sotto della superficie della storia. Korakanè e musica di fisarmonica gitana in background.

Marika è una bambina rom e vive in un campo ai margini di una grande città, che intuiamo essere Napoli. La sua è una vita difficile, divisa tra l’attaccamento alla propria famiglia e il desiderio di superare la cortina che la divide dal mondo degli altri, i gagè. L’autrice è bravissima a ritrarne il dissidio interiore, la crisi, i desideri; il mondo di Marika è reso con profonda empatia, dalla prospettiva doppiamente straniante dell’infanzia e della condizione marginale a cui abbiamo destinato i rom delle nostre città. È questo sguardo “periferico” che consente all’autrice di far emergere le luci e le ombre della nostra società: uomo/donna, ricco/povero sono in fondo dicotomie che, contro ogni pregiudizio, si presentano sia nel mondo rom nel quale Marika vive, sia nell’opulento consumista microcosmo della borghesia gagè.

Non è un caso che trasversali ai due mondi sono anche le figure positive che accompagnano Marika nel suo cammino: il nonno, punto di riferimento incrollabile; Carmen, una ragazza gagè che fa l’estetista vicino al supermercato dove la bambina elemosina e che avrà per lei uno sguardo di compassione; Francesco, il maestro di musica. Tanti incontri attraverso i quali l’autrice lancia un importante messaggio: che non c’è differenza tra le persone, se non nel cuore.

Sono personaggi altrettanto importanti, se non i principali, la scrittura e la musica, con il loro potere di salvare, perfino, o forse soprattutto, da sé stessi: «L’arte era una sorella maggiore, li proteggeva da diventare chi non volevano essere».

L’autrice, del resto, plasma un piccolo universo con una scrittura al contempo cruda e immaginifica, che scava nelle pieghe dell’animo dei personaggi con asciutta precisione e rappresenta la realtà con forza materica: l’umidità e la sporcizia del campo, il freddo della notte e la luce delle stelle dalla finestra della kampina, la sensualità e il decadimento del corpo femminile, l’odore del piscio e del sangue restano impressi nella mente del lettore, quasi che la scena si svolga direttamente davanti ai suoi occhi.

Attraverso la storia di Marika, Floriana Coppola compone un romanzo pluri-prospettico: è questo, infatti, un romanzo di formazione, ma anche un romanzo civile, un romanzo realistico-sociale che mette a nudo non solo la psicologia dei personaggi, ma anche quella della nostra società, dei suoi meccanismi di inclusione e di esclusione, le sue ricchezze e le sue povertà.

È anche e soprattutto un romanzo poetico. Perché l’autrice è innanzitutto poeta e la poesia, intesa nel senso etimologico del termine, quale creazione di mondi e possibilità, è alla base dell’opera. Entra nei soliloqui della protagonista che suggellano le diverse fasi dello sviluppo della storia, nei dialoghi, nelle pause e nei silenzi che fanno da controcanto alla voce principale. Entra nella lingua, che unisce con cura preziosa parole alte e dialettali, termini ricercati e gitani, nella ricerca di una mimesi della realtà che non ceda mai a una scialba imitazione del parlato, né venga mai meno a un principio intrinseco di autenticità. La poesia entra finanche nella raffinata foto di copertina, che ritrae una bimba di spalle in cima a una rampa di scale, forse sotterranea, in corsa verso la luce. Come forse ogni bambina, ogni donna del nostro tempo.

Maria Consiglia Alvino

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