“Io riuscirò a tollerare questa vita d’inferno perché in fondo mia madre non era poi così cattiva”

A. Merini

“Heaven, I’m in heaven
And my heart beats so that I can hardly speak
And I seem to find the happiness I seek
When we’re out together dancing cheek to cheek.”

All’inizio c’è un vento di polveri e fumo. Le colline di Los Angeles dove si trovano le ville dei grandi attori di Hollywood sono in fiamme. Il paradiso è solo l’altro lato dell’inferno. L’inferno della macchina hollywoodiana, Hollywood Babylone, che in quegli anni cinquanta del secolo scorso somministra anfetamine e barbiturici ai suoi attori per dargli l’energia necessaria a reggere il set, per farli dimagrire, per calmarne l’ansia, l’insonnia, salvo poi pagargli cinicamente l’ospedale psichiatrico per la disintossicazione (una banale “rest-cure”) e lo psicologo a Beverly Hills; Hollywood che brucia ragazze che sognano di diventare delle star ma finiscono per essere solo delle misere starlets; che usa le donne anche come una merce di scambio, un pacco, una lettera, una telefonata, room-delivery service; dove un’attrice poteva diventare tale per le ragioni sbagliate, perché aveva solo un bel fondoschiena, o perché era l’amante di un qualsiasi pigmalione. Ma quell’inferno, che sicuramente Joyce Carol Oates denuncia fortemente nel suo romanzo del 1999 Blonde, qualche anno prima del MeToo, per quanto sia la cornice di questa storia, viene dopo. Prima viene l’inferno di Gladys Pearl: una ragazza madre che lavora da tredici anni negli Studios, è al montaggio, taglia le pellicole cinematografiche, immergendo le mani quotidianamente in liquidi corrosivi, è sottopagata, esaurita, non ha più sogni. In qualche modo se li sono portati via gli uomini, che si sono portati via i figli o che se ne sono andati perché ne è nato uno, uno che non volevano, che non doveva nascere. Jasper Baker è il marito da cui ha divorziato e che le ha tolto i primi due figli, un ragazzo e una ragazza. Quella che non doveva nascere è Marylin, all’anagrafe Norma Jean Mortenson.

Anche Gladys ha molti nomi (Gladys Pearl Baker, Mortenson, Elay, Monroe) che in fondo sono sempre solo i cammini che ci portiamo dietro illudendoci di averne finalmente imboccato uno nuovo che ci salverà: identità multiple dove soffocare la colpa di essere nati, di portare in grembo un figlio illegittimo, anche se è vero, in fondo, poi, non è colpa di nessuno se è successo; scorciatoie necessarie per calmare l’ansia e la sensazione continua di essere in pericolo, di doversi difendere, di non meritare di essere amata, perché all’inizio, prima, non siamo stati amati bene. Possibilità dove nascondersi per non essere costretti a pagare per le proprie azioni, per non sentirsi in gabbia, un animale braccato. In cui tutto quello che giuri che non farai più o che non farai mai, tornerai a farlo lo stesso. “I will never take drugs and I will never drink”, continua a ripetersi Marilyn senza potersi fermare. Gladys Pearl è stata la signora Baker, la signora Mortenson, poi sarà la signora Elay (sposando, tra un internamento ed un altro, Johan Stuart Elay, un altro bugiardo, che ha già una famiglia in un altro Stato), nata Monroe. Non ha più sogni, il loro posto è stato occupato da una specie di ossessione: You are the reason, he went away, he didnt’y want you. Mi ha abbandonata per colpa tua.

Ai piedi della collina, Marylin che è solo una bambina di poco più di sei anni, sballottata da Gladys, che è stordita, ubriaca, allo stremo. Siamo nel cuore della notte e Gladys in vestaglietta strattona e spinge la bambina nell’auto e invece di fuggire, di portarla in salvo, semmai le fiamme dovessero arrivare fino al loro misero appartamento, si dirige proprio verso l’incendio su verso Beverly Hills, Bel Air e Los Feliz. Nel vento e nella polvere qualcosa si scompone per ricomporsi più in là, passata la folata, in una forma diversa, Marylin, e poi Marylin ancora, trafitta, sconfitta, di nuovo in piedi. Where Are You Going, Where Have You Been? Dov’eri? Dove stai andando? scrive Joyce Carol Oates. Punto di partenza e punto di arrivo di una storia che brilla ma è fatta di polvere. La polvere però solleva ali di farfalla, scrive Alda Merini.

Dopo la polvere (The City of Sand) arriva l’episodio del bagno, perché al ritorno da quella corsa verso Mouhalland drive, la piccola Marylin si è fatta pipì addosso e tutto, le macchie, la polvere, la puzza, gli odori, l’odore di alcool, di sigarette e di follia, l’odore della classe bassa, l’odore di Gladys, l’odore della figlia illegittima devono essere lavati, candeggiati. Ogni traccia di sentimenti, bisogni, disperazione, ogni traccia di troppo umano deve essere cancellata. Oates immagina Marilyn nell’atto continuo, ossessivo, compulsivo di presentarsi ai suoi appuntamenti sempre pulita, la camiciola e la gonna a matita appena stirate, le unghie delle mani e dei piedi linde. Il terrore fobico per il sangue mestruale (oltre a soffrire di endometriosi). “Always is important to be costumed correctly, whatever the scene”. Controllare di essere in ordine prima di affidarsi allo sguardo altrui. Controllare allo specchio di essere Marilyn, dopo sessioni di trucco e di massaggi che diventeranno sempre più lunghe e penose. Sentirsi sporca appena il produttore che sta per abusare di lei, Mister Z, distillato di tutti i womanizer e women hater di quello star system e dei successivi, accenna uno sguardo di fastidio, una smorfia di disgusto, mentre le sta mostrando la sua (disgustosa) collezione di uccelli impagliati. Quando nello studio del fotografo che scattò le famose foto di nudo su velluto rosso -quelle finite sulla copertina del primo numero di Playboy, per le quali Marilyn si vendette per soli cinquanta dollari, perché la produzione l’aveva scaricata e lei non aveva più di che pagare l’affitto-, lei lo supplica di non fotografarle i talloni. Apposto, in ordine, prima di incontrarsi con il Presidente Kennedy (The Rendezvous). Poi dopo averne ingoiato il seme, mandando giù disgusto, ansia, umiliazione e benzedrine, si cambia il vestito macchiato in cui si era vagamente e candidamente immaginata di poter essere qualcosa in più di un’amante segreta.

In La Pazza della porta accanto, Alda Merini ritorna sulla sua storia, sul manicomio e sulla poesia. Si racconta dal suo appartamento sui Navigli, che a tratti si confonde con i manicomi in cui fu ricoverata o con la casa paterna. Di quell’appartamento abbiamo visto i muri imbrattati, le poesie solo cartacce nel cassetto che regalava agli amici. Un letamaio per gli altri, ma per lei che aveva lasciato quella casa e la sua vita tante volte, ogni oggetto aveva conservato l’impronta di un passaggio di cui non era stata testimone: l’impronta delle dita delle figlie che non aveva visto crescere. Quell’accumulo di oggetti forse doveva trattenere viva la memoria delle cose vissute e soprattutto di quelle vissute a metà. Ogni tanto qualcuno le lava le maglie e spazza via la polvere. “Ogni uomo ha le piccole polveri del passato che deve sentirsi addosso, e che non deve perdere”.

Merini voleva sentirsi sporca e sporcata. Marilyn voleva sentirsi pulita da quella che ingenuamente e perversamente le avevano fatto credere fosse una tara genetica: la follia della madre, la diagnosi di schizofrenia. L’abbandono e l’infanzia violata dovevano essere taciuti e soffocati (per anni Marilyn raccontò bugie e mezze verità). Quando Gladys Pearl, quella creata dalla penna di Oates cerca di annegare la figlia nella vasca piena di acqua calda, la piccola Marylin nuda, scappa e corre a chiedere aiuto. Tutta la storia di Marilyn sembra un continuo déjà-vu, una trama di corrispondenze e suggestioni perché in qualche modo ogni bambino, anche Norma Jean, possiede già il suo destino. Corrispondenze: l’appartamento di Gladys sottosopra, con le tapparelle abbassate, mentre la figlia scappa a chiedere aiuto, è come la casa sulla Fifth di Helena Drive, a Brentwood, la prima casa tutta di Marilyn, quella che stava arredando lentamente, quella dove sarebbe stata trovata morta nell’agosto del 1962, tapparelle abbassate, odore di medicinali, disordine. Nel 1957, già aveva fatto un’overdose di Nembutal, ed era stata salvata da un’equipe di paramedici chiamati da Arthur Miller, il drammaturgo con cui allora era sposata. In quell’agosto del 1962 trovarono il suo corpo avvolto in un lenzuolo bianco, come nell’ultimo servizio fotografico per Vogue firmato da Bert Stern, un mese prima della morte, nell’albergo Bel Air. Una coppa di champagne tra le mani, il lenzuolo, lo sguardo arreso di una donna che è già morta centinaia di volte, che sa come vanno le cose in questo mondo, che sa cosa fare per ottenere ciò che vuole. Non sembra più umiliata, come accadeva all’inizio quando si spogliava, come se sapesse che nessuno oramai la salverà. Amami, vieni ad abitare i miei sogni…vedrai che sono incubi. Ha una cicatrice sull’addome perché è stata appena operata ed ha perso diversi chili; è stata anche licenziata dalla Fox per disattendere continuamente il set di Something got to give. Nessuno degli amici ha telefonato, nessuno si è preoccupato davvero. Eppure, un attimo dopo, di nuovo quel sorriso radioso e disarmante che si porta dietro dal primo shooting, quando tutto sembrava ancora possibile. Una battuta frivola tanto per sdrammatizzare: “When you’re young and healthy you can plan on Monday to commit suicide, and by Wednesday you’re laughing again”.

E come in uno stornello di Louis Armstrong, avete presente, hello dol-ly, dopo che Gladys ha cercato di farle del male e Marilyn è scappata a chiedere aiuto, la scena cambia, Marylin è sopravvissuta, in salvo con uncle Clive e a aunt Jess, che la porteranno in un orfanatrofio. Gladys allontanata, rinchiusa nel manicomio. Marilyn passa da una famiglia in affido ad un’altra, trascorre ore ed ore al cinema, in prima fila, a guardare film over and over, viene molestata sessualmente forse anche dal padre affidatario, viene data in moglie a sedici anni, divorzia, firma un contratto con la Twenty Century Fox, diventa Marilyn Monroe.

Il romanzo di Oates usciva in America più di vent’anni fa. Pubblicato in Italia da Bompiani l’anno dopo (nuova edizione di La Nave di Teseo, 2021). Vent’anni fa era la prima volta che una donna raccontava Marilyn (per tutti ricordiamo la biografia romanzata di Norman Miler), che la raccontava dal punto di vista di una donna, da una prospettiva femminista, senza tacere “la congestione fallica” della cultura americana della metà del secolo scorso. Nei mesi scorsi se ne è riparlato in occasione dell’uscita del film tratto dal romanzo da Andrew Domenik, e del sessantesimo anniversario della morte dell’attrice. Ma tutto questo è già passato di moda trascinandosi via una narrazione bulimica dai titoli più disparati in cui il film si sostituisce al romanzo, lo spettatore al lettore, il follower al lettore, il tiktoker o instagrammer al critico in una sovrapposizione di esperienze, la visione di un film alla lettura, la pubblicità alla lettura, la maratona alla lettura, sempre più ricorrente e sconcertante.

Il romanzo di Oates (come del resto il film tratto dal romanzo) è stato spesso analizzato dalla critica americana come un piatto di cucina: una questione di dosaggi, troppo, poco, una certa negligenza, appropriazione, similitudine, per concludere che la Marilyn di Oaetes non è Marilyn, o che quella di Dominik non è quella di Oates. (“in no way resembled the Marilyn I had come to know through my research and writing”, scrive la rivista Lithub). Fin qui niente di nuovo: quello di Oates è, come chiarisce sin dal prologo, un personaggio e la sua storia un distillato. E forse ognuno di noi possiede ed ha diritto di possedere la sua Marilyn. La letteratura non é un grande “spazio di libertà” e di appropriazione?

Oates crea un personaggio portentoso ed ipnotico ed in ognuna delle settecento pagine è capace di portarci claustrofobicamente dentro quel personaggio. Ha sempre raccontato che in qualche modo la nascita del romanzo è legata ad una foto di Norma Jean sedicenne, con quell’aspetto ostinato di ragazza qualunque, come del resto era stata la stessa Oates, nata e cresciuta in un’anonima fattoria della provincia di New York. Su quella foto si forma l’urgenza di raccontare soprattutto come quella ragazza volenterosa e plasmabile sia diventata passo a passo Marilyn, mito, dea, diva, icona evergreen, immagine, artificio. Il romanzo nelle intenzioni originarie avrebbe dovuto fermarsi alla nascita del mito, The Birth, che poi è il momento in cui Norma Jean comincia lentamente a morire. Ma poi Oates è andata oltre, fino alla fine, fino a quell’happy birthday mister president, la penultima scena, l’indecisione prima dell’attacco della canzone, indeciso come la stola di pelliccia, perché al Madison Square Garden è arrivata sbronza e imbottita di pillole, trafelata, breathless, direttamente dal set, e la voce si scioglie sul microfono, in quel vestito effetto nudo (nude rhinestone dress) che l’attrice si era fatta disegnare apposta per lei, per quella sua ultima e straziante provocazione. Oltre, perché la ragazza della fotografia è sempre stata lì fino alla fine, dove continuiamo a chiederci ossessivamente, come all’inizio, sempre lo stesso perché: perché lui, il padre di Marilyn (che a un certo punto Marilyn identifica e che recentemente sappiamo essere Charles Stanley Gifford, un superiore di Gladys agli RKO Studios) non la voleva; perché aveva sospettato che quel figlio non fosse suo; perché aveva gridato a Gladys di non averla mai amata; perché tutti i suoi uomini sarebbero stati daddys nella cui braccia forti nascondersi e rifugiarsi, in una replica infinita della scena primaria dell’abbandono; perché le fiamme sulle colline di Beverly Hills erano un segno; perché nessuno avrebbe mai amato quella bambina; perché lei Gladys voleva solo proteggerla…

Al romanzo epico di Oates, ai suoi antipodi, c’è Genie la matta. Racconto limpido, ermetico, senza sbavature del legame feroce, selvatico (che è in fondo lo stadio unico di tutti i legami fondamentali) di Marie con la madre Génie. Génie è una diseredata, è stata messa incinta dall’uomo che non voleva sposare, non l’ha sposato, è stata cacciata dalla madre, ed è andata a vivere in una casupola ai piedi della collina su sui si erige la casa della famiglia, la più rispettabile della regione. Génie si ammazza di fatica, non parla, lancia messaggi alla figlia: va a dormire, torna a casa, non aspettarmi. Marie, cresce solo con queste parole, con le parole insufficienti di un lessico amoroso che nessuno le ha insegnato, si fa bastare quelle parole, si fa bastare la presenza ombratile che è sua madre. Per gli altri, quelli che si accontentano di etichettare, Génie è una povera matta. Marie aspetta la madre che rientra a notte fonda, in quella casa che non è una casa, la guarda pulirsi i talloni con dei fiammiferi, ed addormentarsi vinta dalla fatica. Cerca disperatamente compagnia in una mucca cieca, in un anatroccolo, nella madre, in un uomo Pierre, ma tutte le piccole promesse di felicità verranno tradite perché non poteva essere altrimenti.

La poesia scritta da Cagnati viene dal paesaggio, dai sentieri che riflettono le stagioni, secchi, fangosi, dai sentieri che Marie percorre sola, aspettando il momento in cui si ritroverà finalmente con la madre. Ma il sentiero in fondo è unico, sempre lo stesso, come le parole che si ripetono, senza siepi dietro cui nascondersi ad aspettare che il pericolo passi e che lei ritorni, il colore delle isole e dei sogni sulla punta opposta è troppo acceso per essere vero, un sentiero che è la trama dell’amore e del disamore, del perdono e della resa, sentiero cieco sbarrato dallo stesso uomo che fischietta mentre lei, la madre, granello di colpa, grande come la terra, “dormiva così lontano in fondo a tutti quegli anni di stanchezza”.

Togliendo tutto il resto in fondo quello di Marilyn è lo stesso destino di Marie. Perché la vita a volte nelle sue strane repliche e reincarnazioni, si accanisce, e la replica nonostante tutto continua ad essere imperfetta. Perché anche quando hai tutto, quella specie di tara, che ha l’odore della pelle della madre, di Gladys, stramba come un guanto nero indossato di giorno, non ti abbandona. Perché lei Marilyn voleva solo tenerla segreta, rinchiuderla, vendicarsi eppure riscattarla.

Quell’altra, quella che sta dentro non è Norma Jean, così come quella che sta fuori non è the Blonde, o Miss Golden Dream, la mia amica magica (“whathever you want, but I am the Blonde”) in una banale schizofrenia continuamente rielaborata (non siamo forse tutti corredati di una esuberanza del sé?). Dentro c’è solo Gladys: quel pezzo di identità che condividiamo con nostra madre (“my secret self exposed”, scrive Oaetes). Quel pezzo che non si è saldato. “Un ambiente, una scatola, una valvola chiusa all’infinito può generare un delitto mortale su se stessi”, scrive Merini.

È la scatola in cui si trova Marylin, chiusa all’infinito nel suo malessere, come se non si fosse mai mossa, tra le lenzuola bianche stropicciate, quella di tanti servizi fotografici, trentasei anni. È annegata nella palude di sogno che è stata la sua vita, con in copro una quantità enorme di farmaci, che avrebbero potuto ammazzarla dieci volte. “Trasudavo ricordi e congiure, ciò che avveniva di notte di contro alla pensilina del mio pensiero era inenarrabile. Mi svegliavo seminuda come se le mani di mille demoni mi avessero aperto la vagina e guardato dentro, e come se mille insulti mi avessero toccata per lasciarmi lì, veri trionfatori della parola angosciosa”. “Mi portarono via quasi morente. Ma nessuno, tranne i frati di Sant’Angelo, sanno che è stato vero”. Così, con queste parole Alda Merini racconta la stessa scena scritta da Oates (We are all gone into the World of Light), la stessa allucinazione del film di Dominik, in cui si vede l’ennesimo divaricatore, per l’ennesimo aborto, quello a cui Marilyn si sottopose poco tempo prima della sua morte, per abortire il figlio non voluto di Bob Kennedy. Ma Marilyn la portarono via già morta.

Forse un figlio l’avrebbe salvata, dicono. Ritorno ad Alda Merini. “In quei momenti pregavo Dio perché la gravidanza durasse all’infinito: sarebbe stata la salvezza.” Invece Marilyn fu in uno stato costante di aborto (dodici, quattordici, chissà), scongiurato all’infinito, perché si era forse convinta che poi non ce l’avrebbe fatta ad accudire quel bambino, che sarebbe finito in un orfanatrofio, come era accaduto a lei.

It’s over, aveva sussurrato ad un party, qualche settimana prima.

Silvia Acierno

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