Questo è un libro di appunti. Il protagonista non si vede, ma ha una bellissima voce. E parla, parla. Dev’essere intelligente, perché invece di darsi un punto d’arrivo, cammina. E racconta quello che trova, lo chiama per nome, lo mostra.

Si muove in una città, Caserta, e nei suoi dintorni. Sembra che ne sappia parecchio. Conosce un sacco di scorciatoie, di tipi umani, di situazioni, di storielle pubbliche e private. Ha buona memoria in materia di brutte figure.

Non vuole insegnare niente a nessuno, il narratore-protagonista dalla bella voce. Lo sa, eccome se lo sa, che sta raccontando un sud. Che sta trattando una materia impanata e pronta da friggere. Per questo sceglie di andare a ruota libera, di non rispettare alcun metodo di analisi, di non avere niente da dimostrare. E si fa seguire volentieri. Non fai in tempo a cominciare a leggere che già ti ritrovi per strada: « A Caserta ci sono quei fumatori che hanno lo sguardo sbieco, e non perché il fumo gli ottunda i sensi; succede invece che camminano guardando di sbieco perché cercano quelli che vendono le sigarette di contrabbando».

Non guarda dall’alto, il raccontatore distratto; al contrario si avvicina, tocca e annusa, è curiosissimo, ingenuo e scafato insieme (c’è della piacevole tenerezza, e un gran senso di rispetto dell’altro, nella sua scrittura); osserva, cambia strada e ricomincia. Passa con gentile disinvoltura dai tuguri dei lavoratori senegalesi, reclutati alle sei del mattino alla stazione di Villa Literno (una «delle più tristi d’Italia») dai caporali del luogo che scremano gli abili alla raccolta dei pomodori, al culto di Padre Pio e di Concetta Mobili; tratta con gelida malinconia la materia degli scempi edilizi nell’entroterra casertano, descrivendoli non come fenomeni ma come cose e fatti, cioè fondamenta e balconi, geometri, ragionieri e funzionari di Regione; trova somiglianze spiazzanti fra le persone che osserva (e, anche quando detesta, riconosce sempre nella loro umanità) e i prodotti locali («Guardatela, la mozzarella. È contraddittoria, come Villa Literno. Liscia solo per nascondere la vischiosità del grasso (…). È bianca, richiama l’idea di purezza, sembra immacolata, quindi incontaminata, tutta di un pezzo, e invece al suo interno ha natura porosa, conserva la struttura del labirinto: percorsi obbligati e falsi cambi di direzione, strade chiuse, ombre. È il tipico prodotto che nasconde le sue ricchezze»); scrive pagine bellissime sulle ragazze casertane e i loro sogni negati di carriera e di vita migliore (loro che hanno creduto «nella primavera e nella vitalità, finché un giorno si sono accorte che la primavera ha la stessa luce dell’autunno»; e poco per volta «hanno smesso di leggere il Corriere Lavoro e si sono recate dal giornalaio per comprare l’Abc dei concorsi»); e alla fine, senza forse neanche volerlo, ricompone questa quantità sparpagliata di frammenti e ne tira fuori, molto semplicemente, la verità.

Antonio Pascale è uno scrittore da conoscere. E che ha tantissimo da dire.

Il bello è che ha appena iniziato.

Diego De Silva

Il libro

Antonio Pascale
La città distratta

Einaudi, 2001
Collana: Einaudi. Stile libero
163 p., brossura

Il libro attualmente è fuori catalogo