C’erano, infatti, cerchi magici dove si entrava in due, altri dove si entrava in gruppo, altri infine dove si entrava da soli”.

F. Ramondino, Guerra d’infanzia e di Spagna

Giovanna e Luciana, le sorelle protagoniste di La sorella sbagliata, romanzo d’esordio di Camilla Filippi, sono rinchiuse ognuna, ottusamente e testardamente, nel proprio cerchio magico. Quello che le cingeva assieme da ragazze si è rotto. O piuttosto si sono abituate troppo presto a starsene e a barricarsi ognuna nel suo, da sole. Poi il viaggio sgangherato che intraprendono da adulte, per capriccio o per necessità gliene farà ritrovare o costruire un altro, nuovo, diversamente magico. Una specie di inondazione. Il desiderio di un abbraccio, solo per pochi minuti. Il mare di Stromboli diluisce il sangue, asciuga la lava e avvolge l’abbraccio, il cerchio. “Tu mi uccidi ogni volta che mi guardi”, dice finalmente Luciana. “Ti ho odiato perché volevo liberati”, confessa finalmente Giovanna. Solo per un momento prima di entrare ognuna di nuovo nella sua dimensione intima e vitale, ma in qualche modo cambiate.

Il titolo di un romanzo è un po’ come la porta di una casa. Una porta aperta o socchiusa che lascia intravedere la possibilità di una nuova prospettiva. Il racconto stesso può assumere la forma di una casa, non come il luogo banale dell’azione ma nel senso profondo  in cui lo spiega Sandra Petrignani a proposito del “lessico femminile”. Alcuni romanzi di Fabrizia Ramondino, quelli in cui la scrittrice narra la storia della sua infanzia, sono costruiti come una casa che la memoria ripercorre come quando scosti una tenda ed entri in una stanza, e poi spingi un uscio e un altro ancora. Ogni esperienza dell’infanzia in Guerra di infanzia e di Spagna e in Althénopis parte dal luogo in cui è stata vissuta, la casa di Mallorca e le case che si sono succedute dopo, senza mai reggere il confronto struggente con quelle dell’isola. Anzi è proprio la scrittura di Ramondino ad uscire come una corrente dalla casa di Son Batle. A prendere le sembianze di quel luogo in percorsi lineari o paralleli dove si succedono forme quadrate, rettangolari, simmetriche o asimmetriche. Le mura di cinta, il giardino, l’interno della casa, la soffitta, lo stanzino delle punizioni, la camera da letto di mamita, i giocattoli, le muñecas, le tazzine di porcellana, la frutta candita, le ville che sono un tutt’uno con i vestiti con cui la bimba va a visitarle, il cortile dell’amata Dida, la balia, semplice e immensa Dida…

Lo spazio non è semplicemente  il luogo dell’azione. È un luogo fatto di emozioni e percezioni che si modellano attorno alle cose, che possiedono un’anima e hanno il potere di talismani. Pieno di simboli. Dove il tempo scorre in modi molteplici, mescolandosi con la spazio in una catena di metamorfosi. Spazio che assume sembianze umane, come le sottane della balia. O un “faro”, come nel romanzo della Woolf, che palpita, come un cuore, si illumina e si spegne, accoglie e ricaccia…

Il titolo La sorella sbagliata è una porta che mi invita ad entrare, evocando titoli molto suggestivi come L’amica geniale, il romanzo di Elena Ferrante, Matrigna, di Teresa Ciabatti… Sin dal risvolto di copertina, Camilla Filippi annuncia però che la sua è la storia di un viaggio. Esterno quindi. Eppure anche lì c’è una casa perché la casa può anche caricare le cose della capacità e possibilità di trasformazione. La casa di Luciana, Giovanna, del cagnolino Briciola e della loro madre è ancora troppo carica di ricordi. Le porte dell’appartamento si richiudono alle spalle per custodire intatto l’odore della madre, la sua voce e il dolore di Luciana, la sorella con cui Camilla si identifica. La casa è uno spazio vuoto eppure troppo pieno. Svuotato dall’assenza della madre, diventa lo spazio dove ricacciare e custodire il dolore per la sua morte. Da quella casa Luciana è già scappata, trasferendosi a Bologna, verso l’indipendenza e l’emancipazione. Lontano da Giovanna e dalla madre per non invadere quella loro simbiosi ma anche per liberarsene, per far tacere i sensi di colpa i suoi e quelli della madre. E poi questo viaggio improbabile all’indomani dei funerali della madre.

Ed ora che Luciana vorrebbe rimanere per un po’ in quella casa, sentendo addosso tutto il peso deprimente della nuova responsabilità che crede di dover assumere, quella di badare a Giovanna, limitata dal suo handicap, è strappata a forza da quella casa. Giovanna tra mutismi, gesti sprezzanti e ricatti emotivi la costringe a partire per quel viaggio che la madre aveva espresso il desiderio di fare tutte e tre assieme e che aveva sempre rimandato. Il viaggio è una specie di deriva seminata di incontri-scontri con personaggi un po’ caricaturali che si susseguono come nel copione di un road-movie. Una carrellata di persone buffe, invadenti, disabili, hippies, omosessuali per raccontare la diversità. E quando Camilla si allontana dal racconto della morte della madre  accanto al quale la lotta tra le due sorelle anche se muta e inespressa è potente, lo scontro tra Luciana e Giovanna si carica di rabbia e porte sbattute in faccia, ma a tratti si fa meno drammatico. Come se quel concentrato di incontri e personaggi potrebbe anche non esserci stato perché in fondo è nel rapporto “normale” con la sorella che Luciana impara la diversità, il lungo e tortuoso cammino che la porta ad accogliere ed accettare sua sorella come una persona normale.

Camilla Filippi è lì dentro, almeno l’idea che mi sono fatta della sua persona attraverso la voce, le interviste e i ruoli interpretati. È tutta lì, nella linguaccia che fa ai bimbi che dalla loro macchina la osservano impertinenti o negli occhi che si posano sulla bambina down incontrata sull’autobus. Irriverente e con l’urgenza pulita  di schierarsi contro la discriminazione portando in scena l’umanità imperfetta e combattiva, compreso Briciola.

È un romanzo scritto in prima persona. Ma l’io che narra, Luciana, non è Camilla Filippi. Luciana e Giovanna, la sorella spastica, sono e non sono la madre e la zia della scrittrice. Camilla ha raccontato che la madre delle due ragazze, quella che nel romanzo si scrive Mamma, ha i tratti di sua madre, persa troppo presto. La sua umanità, quella sua capacità semplice e così comune di accogliere l’altro. Sono il dono che attraverso l’esempio le ha offerto. Il dono più caro. Non è un romanzo autobiografico, ma elementi autobiografici si ricuciono in una storia romanzata. Poi, come dice Duras, “ce qui a été écrit remplace ce qui a été vecu”. Ma perché questo accada lo scrittore deve stare dentro, deve aver vissuto per poter raccontare. E allora, anche se l’io protagonista e narratore della storia non è Camilla, esiste un forte elemento autobiografico che si respira in tutto il romanzo e lo rende vero, dolente, emotivo: il confronto con la morte prematura della madre. E una specie di confessione: riconoscersi in lei, accogliere dentro di sé una madre che quante volte al guardarla si sarà rispecchiata nella figlia, scorgendo pezzi di sé in un gesto, nei lineamenti, in una smorfia, con gratitudine e nostalgia.

Il romanzo è soprattutto questo: la traccia di quello che lega una madre a una figlia. Una traccia limpida senza terribili risentimenti né terribili adorazioni. E poi una ricerca delle ragioni dell’amore fraterno. L’invalidità di Giovanna acutizza i sensi di colpa per essere “normale”, e la gelosia che fanno parte di quel legame. La difficoltà di trovare un equilibrio tra la tenerezza e l’affetto, il cameratismo e poi, dietro l’angolo, la gelosia che si traveste di indifferenza o rabbia. la mancanza e un senso di oppressione e di invasione. E la madre, come in questo trio, si ritrova ad essere il perno, barcamendandosi tra indulgenza e punizione, aperture e chiusure. Forse sarebbe più salutare accettare quest’instabilità dei sentimenti che uniscono e dividono la famiglia, sin dall’inizio. Ma solo quando la madre, oggetto di quell’amore così difficile da dividere, viene a mancare Giovanna accetterà di aver bisogno di aiuto e Luciana accetterà che la sorella non è un peso. E allora, almeno per un momento, le due sorelle sono capaci di guardare in faccia il malessere senza troppa paura. Di riconciliarsi con un certo disagio, senza perdonarsi, senza cancellare i torti. Perché in fondo non serve.

Silvia Acierno