“È impossibile guarire da una cosa che non riconosci come una malattia”.

Sono in quel periodo della mia vita in cui, dopo aver letto, devo pensare.

Ho letto questo romanzo, moderato l’autrice Alice Urciuolo un paio di settimane fa al Circolo dei lettori e poi ho lasciato che i giorni lasciassero stratificare le parole giuste, non solo quelle dettate dall’immediatezza del bello, ma che si aggiungesse altro.

Esiste un legame familiare nel dolore? Certe sofferenze si ficcano nel nostro DNA come se fossero il colore dei capelli, degli occhi, la gobba del naso?

È una cosa che mi ha affascinato molto, l’ereditarietà del dolore di parenti e addirittura di avi che non conosciamo neppure. Mica siamo dei monarchi obbligati a conoscere la linea dinastica nel corso dei secoli, corretto?

Partiamo da lei, Milena.

Ragazza delicata, fragile, che sfoga pensieri e rabbie ataviche sul cibo, rendendolo suo nemico. Non l’unico, certo, ma fisicamente il più evidente.

Milena, dicevo, a tratti Mìlena però, che cambia l’accento non solo per vezzo, ma in quel teatro nel teatro che sanno essere i libri con tanti livelli di lettura e in cui riusciamo ad inserire Kafka, con le sue Lettere a Mìlena, appunto.

“Chi ha il cuore e la coscienza puliti, non deve farsi trascinare nel fango.”

Milena, figlia unica di una coppia coesa, forse troppo coesa, tanto da darle l’impressione di essere il tertium non datur come possibilità di felicità condivisa.

Loro due: perfetti e uniti.

Lei: elemento di disturbo.

E cosa c’è di più detonante in una coppia se non l’addossarsi reciprocamente la responsabilità del fallimento genitoriale come causa scatenante del crollo emotivo di una figlia?

Ve lo dico io: nulla.

Ed è così che il disturbo alimentare di Milena/Mìlena diventa un gioco al massacro dei sentimenti di tutti, lo squid game dove chi tenta di ricongiungersi con il proprio io felice interiore, viene colpito.

Suo padre scappa dinnanzi ad ogni tipo di responsabilità, ma che dico responsabilità, anche di aiuto, supporto, conforto e confronto.

Sua madre si rifugia nella ricerca spasmodica di un segno di guarigione divino, che trova (come no…) all’interno della” Chiesa della verità”, una setta nata a Roccanuova, in Ciociaria, ad opera di un ex impiegato di banca che, probabilmente stufo di concedere mutui, ha iniziato a compiere miracoli.

Per scappare dai cambiamenti che sono avvenuti a casa si trasferisce a Roma, ma come ormai la vita ci sta insegnando da millenni, se si fugge e non si risolve, i demoni non spariscono, semplicemente traslocano.

E così la finta luce risolutrice di ogni male, a Roma , non ha il nome di alcuna setta, ma si chiama semplicemente Emanuele, un partner manipolatorio e un amore tossico totalizzante.

Parliamo troppo di amore tossico? No raga, non è mai abbastanza.

Il “vado all’ultimo incontro per chiarire” è ancora troppo presente nelle pagine di cronaca nera per credere che questo sia solo un buon argomento da leggere perché crea suspence.

È un libro che ti fa prendere tante strade di pensiero e in qualcuna ti perdi, come sanno fare le storie nelle quali ti immedesimi a tal punto da credere di conoscere quel personaggio che ormai, per te, è diventato una persona. È una scrittura che ti concede il lusso di prendere posizione, ma non rispetto alla storia: ti permette di scegliere chi vuoi essere e chi no, o non più.

“Ho letto che è stato provato come una parte della memoria del bruco sopravviva al processo di scomposizione e ricomposizione delle proteine che lo tramuterà in farfalla. E quindi, nonostante la completa metamorfosi, la farfalla continuerà a riconoscere determinati odori che erano stati significativi per il bruco”.

Natalia Ceravolo