« L’important n’est pas ce qu’ils me montrent mais ce qu’ils me cachent, et surtout ce qu’ils ne soupçonnent pas qui est en eux ».

Questo scriveva Robert Bresson nelle sue Notes sur le cinématographe. Lo scriveva a proposito dei suoi attori, che attori non erano né dovevano essere. Questo appunto che Bresson faceva a sé stesso, rappresenta quello che lega i fratelli d’Innocenzo ad Elio Germano, l’attore protagonista di America Latina, e, ad un altro livello, al protagonista di questa loro incredibile narrazione cinematografica. Guardare quello che nasconde, avvicinando la cinepresa alla testa, sempre all’altezza della testa, rasata, sferica e liscia, fino a sbatterci contro, ad aprire un foro, una piccola crepa, da cui cola la storia. Per forzare fino al limite del possibile l’identificazione di noi spettatori con il personaggio, fino a farci sentire quella necessaria inquietudine per poi lasciarlo nell’incomunicabilità del suo mistero umano o della sua follia.

Poi c’è un’altra frase di Bresson, un’altra di quelle annotazioni attraverso cui il regista francese compiva la sua rivoluzione estetica: per lui il cinema era “scrivere attraverso immagini in movimento e suoni”, una specie di sintesi dell’arte cinematografica, contrapposta al cinema che inscena, “mettre en scene”, che rappresenta, riproduce la realtà. Fabio e Damiano D’Innocenzo compiono questa premessa del cinema d’autore con una cura del dettaglio e dell’ultima pennellata (come Bergman, Antonioni, passando per Tarkovskij di Sacrificio ma anche di Solaris con le sue resurrezioni ossessive della figura femminile, per citarne solo alcuni). Fino all’estremo, un estremo che in qualche modo coincide con l’origine, dopo aver fatto tutto il giro e rielaborato tutto quello che sta in mezzo, e cioè un racconto cinematografico quasi muto: pochi dialoghi, scene e musica dei Verdena, in una sequenza in cui la musica non è un sottofondo, ma un altro gesto, un’altra immagine, e il virtuosismo visivo un tassello in più della storia.

America Latina: il titolo, è già quello che non è, una falsa pista. Perché siamo a Latina, nella campagna acquitrinosa dell’Agro Pontino, dove tra tornanti visti dal finestrino di una macchina che avanza a sbalzi arriviamo ad una villa modernista in stile americano, quasi hollywoodiano, con una rampa ed una piscina, quella in cui possiamo sempre trovare un cadavere però. Ma l’America non è solo la villa, o una specie di sogno (fino all’America sognata dai registi, o l’ambizione di un regista italiano di provincia), la vita da sogno del protagonista, Massimo Sisti, dentista benestante, che si contrappone alla realtà, una realtà molto più danneggiata e ombrosa. Il sogno americano sta piuttosto nelle lunghe citazioni cinematografiche. In verità la casa del protagonista, quarantenne, sposato, padre, potrebbe trovarsi ovunque, in uno spazio anonimo, qui o là. Una pista falsa; eppure, così vicina alla realtà quella che proprio perché precede i nomi, confonde i tempi e gli spazi, identificabile e estranea, ci accomuna.

Sotto, nella cantina della villa, il dentista nasconderebbe i suoi segreti e assieme ai segreti il suo io più profondo e perturbato. E quando per un guasto nell’impianto elettrico scende nello scantinato, scopre qualcosa di sé, scomodo, raccapricciante: una bambina, sequestrata, legata ad una tubatura.  Non sa come sia finita lì, chi ce l’abbia messa, chi sia entrato nella sua casa, sospetta di un amico, eppure le lega di nuovo la bocca con una corda per non sentire le urla strazianti e la lascia lì sotto, sorpreso, sconvolto eppure allo stesso tempo preparato. Sopra c’è la famiglia: tre donne, che si confondono tra di loro, come se le chiome di una finiscano in quelle dell’altra, i volti come se fossero sempre lo stesso, anche lo stesso della bambina sequestrata in cantina, premurose, svolazzanti, complici, bisbiglianti. Sotto c’è il caos, il pavimento è ricoperto di immondizia, prima di essere spazzato dal dentista e di nuovo allagarsi; sopra, invece, regna l’ordine e un’apparente armonia. I segreti restano chiusi a chiave sotto. Ma non è proprio così. Piuttosto sotto nella cantina c’è il suo ultimo appiglio, l’ultimo legame con la realtà. Visto che quello che i fratelli d’Innocenzo sono riusciti a creare attraverso la sceneggiatura, la fotografia e il montaggio è una storia lineare, dall’arrivo alla villa fino alla voce del cronista, ma molto più complessa, in un ulteriore acrobazia tra linea e vortice assolutamente riuscita.  L’incubo vero, il segreto più profondo, che in qualche modo rimarrà tale, sta tutto sopra in superfice: in quelle donne bianche su sfondo rosso scuro, come le donne bianche su sfondo rosso che sussurrano e gridano di Ingmar Bergam (Sussurri e grida). Ma il bianco di queste donne è ancora più bianco, quasi trasparenti invece di quel bianco virginale e teatrale di Bergman e il rosso si scurisce al posto di quel rosso così vivo e scontato del regista svedese. Le tre donne sorridenti a cui il dentista continua a volgere il suo sguardo dopo la confessione e su cui si chiude il film. Queste donne sono la vera ossessione del protagonista, sono la sua vera psicosi, la sua fantasia più nascosta.

In questo film i fratelli d’Innocenzo non solo riuniscono diversi generi cinematografici, come hanno raccontato, ma li sconvolgono. Perché, ovunque lo si guardi, nello scorrere di ogni racconto, dal dramma al thriller, c’è un punto di rottura. Un’altra falsa pista, un altro spaesamento. Non è la storia (drammatica o orrorosa) di un uomo che seguiamo nella sua discesa negli inferi, che porta a termine la sua psicosi o il suo crimine, pagando per i suoi orrori, scoprendo che non è stato lui a compierlo o vincendo la sua “malattia mentale”. È piuttosto la storia di un uomo che risale, che all’interno della sua gabbia mentale riesce a trovare una breccia, una crepa per risalire, redimersi in qualche modo, senza guarire però, perché guarire è un’idea un po’ ingenua, come credere che il bene stia tutto da una parte e il male tutto dall’altra. La storia comincia qui; non quando il dentista scopre il segreto nelle viscere della casa e di sé stesso, la bambina che forse è stato lui stesso a sequestrare; ma quando qualcosa comincia a rompersi al piano di sopra, tra lui e quelle donne, la moglie e le due figlie, che sono, in fondo, i veri spettri: la famiglia a cui ha rinunciato per sempre. L’unica capace di salvarlo. Sì, perché solo i nostri stessi fantasmi, quelli a cui ci siamo così abituati da sempre -da quando eravamo piccoli e non ci raccontavano favole, e tutto ha cominciato a confondersi, a farsi insostenibile-, così abituati da diventare irrinunciabili, possono aiutarci a capire. Perché anche il senso di colpa, la riprovazione per quello che ha fatto, per il delitto che ha compiuto (forse in uno stato di alterazione dovuto all’alcol o agli psicofarmaci di cui sembra abusare) e l’espiazione prendono forma di donna. Sono percepiti come la minaccia (in cui lui stesso si sta trasformando) per l’incolumità delle figlie, come umiliazione rispetto a quelle figure, pericolo di perdere l’amore e la complicità che lo unisce a quella moglie che forse non è mai “esistita”. E l’unico abbraccio che gli permette di confessare il suo degrado, è lo strazio di un abbraccio femminile negato. E quando il riscatto sembra compiuto si apre un altro abisso che la voce fuori campo in un contro climax assolutamente necessario, non dissolve. Dove sono quelle donne? Chi sono?

Il segreto non sta sotto, nel sottosuolo. Forse sta sopra, quel sopra che Teresa Ciabatti (in occasione della proiezione al Cinema Troisi di Roma) sapientemente immagina come una piramide: qui ci sono gli spiriti e i fantasmi a cui il protagonista non ha dato degna sepoltura. Ma sta soprattutto in alcune immagini che rendono in modo potente ed inedito la misura della solitudine umana e dell’impotenza di ogni attimo di autocoscienza. Sono come dei corti-circuiti nella storia, in cui fugacemente, quasi in modo subliminale, il dentista è filmato per quello che è, anche se ce ne rendiamo conto solo dopo: un uomo tragicamente solo e vulnerabile. Quando suona il piano in una casa che per un attimo si fa reale e monodimensionale, tocca i tasti ascoltando un tutorial sul telefonino, prima di essere sorpreso dall’arrivo della figlia più piccola che suona meravigliosamente il pianoforte, prima che ricominci a sognare, prima che l’immagine si faccia di nuovo filtrata e irreale. Quando tracanna la bottiglia e le gocce in una casa che all’improvviso si fa assolutamente solitaria. Poi quando piange in macchina dopo aver fatto visita al padre, un padre terribile e senza redenzione,  con cui è impossibile identificarsi tanto quanto è impossibile opporsi, e di nuovo filmicamente è come se quest’attimo appartenga di nuovo alla realtà, quella più vera, in cui l’uomo è capace di piangere in modo disperato, prima che compaia di nuovo la moglie, come trasportata dal vento della fantasia e della psicosi, prima che lei lo avvolga di nuovo con le sue braccia e i suoi capelli, quasi lo inghiotta e lo protegga. E la potenza di questa fantasia d’amore, di un amore negato forse nell’infanzia, e che lui può solo continuare a negarsi, da per contrasto la misura della solitudine e delle tenebre in cui l’uomo è mostro ma il mostro è anche un uomo.

Il cinema passa dalla gloria, al declino e alle rinascite. Come scriveva già Susan Sontag, un film nuovo, degno di ammirazione deve essere eccezionale nel senso di “violare” le norme che governano quel genere, quell’industria. I d’Innocenzo compiono con “America Latina” questa violazione necessaria. La compiono soprattutto quando l’amore, la sessualità e la violenza non si riparano in una zona calda (secondo la distinzione sempre di Sontag tra cinema “caldo” quello di un Chaplin o di Fellini, e cinema “freddo”, riflessivo in cui la forma serve a creare distacco e a ritardare le emozioni dello spettatore). Ma scivolano via come gocce d’acqua da superfici troppo lisce e levigate per trattenerli. Qui il lirismo visivo non è né decorativo, né aneddotico, e il coinvolgimento emotivo avviene su tutto quello che non vogliamo vedere, di cui non vogliamo parlare, sull’inquietudine piuttosto che sul distacco o su quella serenità che cerchiamo tutti così affannosamente.

Silvia Acierno