Un sol abandonné est un terrain d’élection pour les plantes vagabondes

Gilles Clément, Le jardin en mouvement

In primavera, le colline si coprono di ginestre: riconosci il loro odore selvatico e carezzevole, appena ti avvicini ai nostri porti, viaggiando sul mare nel mese di giugno

Elsa Morante, L’isola di Arturo

Al centro del romanzo di Patricia Almarcegui c’è un orto-giardino. L’orto è nascosto in fondo ad un sentiero privato, nell’isola di Minorca. Ma è anche una reminiscenza di un altro orto, quello dell’infanzia di una delle narratrici, Pari, una donna iraniana che, come altri iraniani, si è fermata sull’isola, passaggio o stazione di una migrazione, che è spesso un esilio. L’orto vive nella memoria, in quel passato in cui non riusciamo a smettere di affondare le mani (“echo de menos remover la tierra con los dedos”, dice Pari). Lo stesso orto è anche tutto ciò che resta del vecchio orto orientato a sud, “l’orto che è sempre stato lì”,  che coltivavano i genitori di Anna, l’altra narratrice (“el hortal que compraron mis padres cuando éramos pequeños”). Il giardino che Anna sta progettando è ancora più evanescente e segreto: è un disegno, dei piani su una scrivania, il giardino che Anna non ha (hanno venduto l’orto, hanno venduto l’appartamento) eppure continua a progettare, immaginare guardando dalla finestra dell’hotel di Torrepexina, un hotel abbandonato, in fondo allo stesso sentiero. È qui che Anna e Pari si incontrano, portando ciascuna la sua storia assieme alla polvere e ai semi, che viaggiano con noi.

In questo spazio impreciso ( “enclos”  è appunto il significato di giardino) è racchiuso soprattutto il tempo che è un piccolo miracolo ma anche un terribile tradimento. Lì, in mezzo, dove “alguien muere y alguien vive”, dove delle estati che ci tenevano uniti perché così doveva essere resta solo il ricordo, un’altalena vuota e dell’abbraccio di tua madre uno scialle andaluso o una “manta de ganchillo”, in cui continui ad avvolgerti.

Di questo spazio incolto e abbandonato, mezzo orto mezzo giardino, Patricia Almarcegui è la vera giardiniera. Una giardiniera particolare però, rivoluzionaria, che lascia fare, si lascia “infestare”, occupare il suo io narrante da una narratrice e poi da un’altra, senza avvertimenti; accompagna il movimento della narrazione, gli spostamenti e peregrinazioni dei suoi personaggi, le interferenze di avvenimenti che sembrano riguardare altre persone, altre storie, e invece riguardano sempre la stessa, la nostra, quella di tutti noi; osserva le erbacce che un altro scrittore avrebbe sradicato dal racconto considerandole delle divagazioni da sopprimere nell’affannosa ricerca di quell’idea di romanzo come entità compatta, perfetta, incontaminata. Almarcegui abbandona l’idea di poter modellare la storia, ci rivela tutta l’illusorietà di un tale progetto, la scompone e la ricompone, ce la racconta dalla fine all’inizio; non ce la racconta, ce la suggerisce per ellissi, ce la lascia. Solo importa essere lì con e non contro questa sua creazione selvatica. In fondo la materia narrativa è un luogo abbandonato, “un solar”, “une friche”:  “hay sitios que son de siempre, son para todos. Son los lugares que se abandonan”. Amarcegui è solo un vettore.  « Le jardinier, parce qu’il est un entremetteur est à la jonction des rencontres imprévu », scrive ancora Clément. Almarcegui è lì dove i sentieri si incrociano, ad aspettare l’incontro esotico, imprevisto ma probabile tra Pari e Anna.

Gilles Clément, maestro-filosofo del paesaggio, ci ha raccontato per primo la bellezza del giardino in movimento (Le jardin en mouvement), del giardino sconosciuto, “inconnu”, luogo di evoluzioni permanenti, agli antipodi dell’idea classica del giardino come estensione del pensiero razionale (quel paradiso artificiale in cui le piante si elevano come sculture, tutto in ordine, l’erba tagliata dalle macchine, l’illusione che finalmente ci dà sollievo, l’immagine piatta senza domande in cui chi rubò la mela continua ad avere tutte le colpe e responsabilità). Questo romanzo è un giardino involontario: mentre l’acqua sotto trova sempre il suo cammino, e il vento rabbioso del nord sbianca il cielo, i colori degradano all’infinito, “vedre pistacho de la marina, verde esmeralda de la lagunas, verde manzana del camino a la playa, verde limón en los prados, verde jade de las laderas, oliva, menta, translúcido…” In primavera i colori aumentano assieme agli animali. I gigli ci parlano con le loro dieci lingue, gli ortaggi hanno i colori dei fiori, l’orto sboccia come un giardino. Quando arriva l’estate e arriva Mana, la nipote di Pari, e Anna sgrava sua figlia, “cuando el huerto estaba casi terminado, si es que las plantas dejan de crecer en algun momento”.

Il movimento si fa più ampio, quasi planetario (l’utopia del “jardin planetaire” di cui parla Clément: vedere la terra come un grande giardino). Inutile, scrive Clément, erigere frontiere, muri per impedire a piante e animali di migrare da un sistema ad un altro. Così al terreno secco e argilloso dell’orto di Menorca si sovrappone quello Iraniano; i colori di Menorca si allungano in quelli dell’Iran. E la storia di Anna diventa quella di Pari. Entrambe sono arrivate sull’isola come respinte dalla vita. Pari ha alle spalle l’Iran, una madre che l’ha messa a servizio da ragazzina, l’ha modellata, le ha imposto divieti, un matrimonio per sfuggire alla tirannia della famiglia e finire in un’altra, il desiderio di aprire un salone di parrucchiera, i debiti per aprirlo perché ad una donna senza marito la banca non presta niente in Iran. Anna è una biologa catalana, una paesaggista. Si lascia alle spalle una vita con quei piccoli soprusi quotidiani quasi trascurabili a cui, spesso senza accorgercene, finiamo per abituarci, nella vita familiare, da bambina con i fratelli, poi da donna, all’Università, a lavoro, con tutte quelle volte in cui scelgono un uomo al posto tuo. E un aborto, accompagnato dalla solita domanda abominevole prima di lasciarti entrare in clinica con tutte le colpe e responsabilità: “quieres quedartelo?”.

Il movimento, assieme alla terra e ai semi di zafferano,  avvolge  soprattutto i desideri, quelli che non si sono realizzati e quelli che sono andati troppo lontano. Quel qualcosa che cicatrizza dentro come la sabbia di Menorca nelle linee del corpo, come fossili marini incastonati da qualche parte, conchiglie, stelle.

L’isola protetta da scogliere che cadono in un mare senza fondo, è quel posto che viene dopo la tempesta, dopo il naufragio, dopo gli assedi, dopo tutto quello che accade altrove ma che accade anche qui, che è accaduto molto tempo fa ma che continua ad accadere; dopo l’esilio del poeta che è come quello di una persona qualunque, uomo, donna, travestito. Dove il disordine difende l’ordine. E l’entropia è la regola.

È il posto ancestrale in cui si ritorna per ricongiungersi ai propri genitori quando loro non ci saranno più. “mamá, papá, estéis donde estéis, he vuelto a la isla”. Nella sabbia è rimasta la voce della madre di Anna: “Mira, esta piedra parece doblarse, esta triplicarse, esta sonreír, esta estar enfadada, esta estar tumbada como las olas , esta parece que lleva a cuestas otra isla pequeña, esta es como si una mujer abrazara a su hijo. Esta es ¡cómo nosotras!” Anche quello di Pari è un ritorno, una specie di immedesimazione: coltivare lo zafferano come faceva sua madre che aveva chiesto al marito un appezzamento di terreno il più lontano ed esposto al sole, solo per lei, per coltivare lo zafferano, e disporre del ricavo.

Anna ritorna a Torrepexina, a Cala Pregonda, a Ciutadella, torna per dare alla luce la sua bambina e all’isola Patricia Almarcegui affida il suo desiderio di maternità, come aveva già fatto Elsa Morante con l’Isola di Arturo, come abbiamo fatto tutte noi, comunque madri anche dei figli non nati. Perché  tutto svanisce comunque “Svanisce l’ammasso, svaniamo noi in forma liquida, svanisce la luce di cui resta solo un bagliore”, come racconta in modo esatto Ilaria Berardini in Il dolore non esiste.

Anche io sogno di invecchiare in un’isola. Mi vedo in un’isola del mare napoletano, quella che amava Elsa Morante. Di raggiungerla quando i miei figli saranno andati via, quando le incomprensioni smetteranno di essere un rumore di fondo. Quando di tutti i versi, le filastrocche e le storie resterà un unico verso più essenziale e depurato. Perché tutto sarà caduto in quel mare, tutto quel separare, spargere, racchiudere, dividere, discernere. E se non sarà su un’isola, accadrà comunque di guardare con più benevolenza e meno malinconia alla vita che ho vissuto che in fondo conterrà anche tutte quelle che non ho vissuto.

Las vidas que no viví, è anche una storia di donne senza etichette né rivendicazione troppo strillate. L’orto-giardino segnato dalla storia di chi l’ha coltivato e di chi l’ha abbandonato, eppure assolutamente affrancato, è anche lo spazio di perdita di potere dell’uomo sulla natura (e sulla donna). Diventa uno spazio di scelta e libertà per queste donne comunque marcate dalla cultura patriarcale. Donne modellate come giardini, per mezzo delle loro madri (come esige la cultura patriarcale).  Almarcegui mette in bocca a Pari quella frase di Simone de Beauvoir: “Yo nací mujer y luego tuve que aprender a serlo”, restituendo la concretezza e il senso autentico del pensiero di Beauvoir.

È una storia di donne soprattutto perché si sente potente l’eco di quella donna comune a tutte noi: la donna che la cultura patriarcale uccide nel migliore dei casi simbolicamente. “A mamá también le habría gustado ocuparse, estar sola en el campo, ir y venir desde el pueblo con el viento de frente y el sol en la cara, pensar o no sobre sus deseos, perderse de camino para comprar ago, beber un gin, visitar a alguiien. Pero nunca lo hizo”. Quella che ci lascia un certo amaro in bocca e un senso di sconfitta. Ma anche l’unica capace di capirci e di non farci sentire colpevoli. Consolazione ma anche vuoto: el jardín se está muriendo, el patio está sólo, la fuente está vacía, recitano i versi di Forugh Farrojzad.

Il giardino-orto è un paradiso? si chiede continuamente Almarcegui. Sì mentre Pari coltivava lo zafferano in un orto che non era suo eppure era la sua casa nel mondo, lo ha saputo appena l’ha visto, coltivava e aspettava sua nipote Mana; mentre Anna aspettava sua figlia e impiegava l’attesa a progettare un giardino senza averne uno (chi può davvero permettersi oggi di comprare una casa con un giardino? Cos’è la proprietà? Ha ancora senso?), e tutti vivevano assieme ad altri immigrati iraniani, i bambini giocando nel patio del vecchio hotel abbandonato, che avevano rimesso su come se fosse la loro casa, come prima di loro aveva fatto un’altra coppia di Barcellona, invitando amici, celebrando feste e tertulie. Prima che venisse sloggiato, distrutto, o convertito in hotel, o occupato di nuovo. Tra un cataclisma ed un altro, tra una rivoluzione ed un’altra, qui, lì, tra una vita ed un’altra.

Silvia Acierno