Non ho studiato Virginia Woolf alle superiori, l’ho incontrata all’università. Analizzammo Mrs Dalloway. Di quel corso ricordo soprattutto la passione della professoressa nei confronti della scrittrice, si dichiarò subito quasi ossessionata. Si rifìutò di parlare di diagnosi e patologie. C’era chi aveva letto diari e lettere, per poi assegnare malattie. Scrittrice depressa. Scrittrice suicida. Malattia e suicidio monopolizzano il discorso su Virginia Woolf.
Ricordo però anche una mia strisciante convinzione. Un malessere ti cambia, ti fa sentire delle cose, cose che forse non avresti pensato. I grandi artisti sono tutti malati? Anni dopo vidi lo spettacolo di stand-up Nanette, Hannah Gadsby diceva: “The derivative of the foxglove, if you overdose it a bit… do you know what happens? You can experience the color yellow a little too intensely. So, perhaps, we have The Sunflowers precisely because Van Gogh medicated.” Forse ci portiamo tutti qualche malattia appresso. Di sicuro non è una malattia a fare grande una mente.
Ho incontrato successivamente spesso Virginia Woolf sentendo parlare di femminismo. Ho apprezzato le sue parole nella voce, tra le tante, di Carolina Capria, senza la quale neanche i miei studenti delle superiori avrebbero incontrato Woolf. L’autrice ci ha lasciato non solo romanzi ma anche saggi e teorie. Una stanza tutta per sé. Le tre ghinee. In sincerità, non li ho mai letti. I contratti sono sempre troppo a tempo determinato e il tempo, ironicamente, è sempre troppo poco. Ho sentito alcuni passaggi sparsi. Le analisi di questa autrice vissuta un secolo fa sono lucide, ancora attuali, illuminanti: “Per secoli le donne sono state gli specchi magici e deliziosi in cui si rifletteva la fìgura dell’uomo, raddoppiata.” Mi ha spinto e spinge tutt’oggi a chiedermi: io come voglio vivere? Chi voglio essere?
Mi sono davvero fermata a studiare Virginia Woolf solo quest’anno. Non per il dovere di passare un esame, non per il caso fortuito di sentirla citare in discorsi altrui, ma per la scelta di inserirla nel programma di quinta, con buona pace di James Joyce. Ho letto della sua relazione con Vita Sackville-West. Ho scoperto che Orlando è stato uno dei primi romanzi a trattare l’identità di genere. Ho pianto con la sua ultima lettera al marito Leonard Woolf. Negli ultimi giorni, per l’occasione, ho letto tre suoi racconti che non avevo mai sentito nominare: Moments of Being – Slater’s Pins Have No Points, A Haunted House, Green and Blue.
Credo che “i momenti di esistenza” di cui parla Woolf siano momenti che tutte le pratiche spirituali ricercano. Quei momenti di chiarezza, quei momenti di limpidezza in cui senti di aver capito. C’è stato un pomeriggio della mia infanzia quando, distesa su un prato, mi sono sentita perfettamente felice. I raggi del sole si muovevano sui miei occhi chiusi. Mi sono sentita legata a tutti gli insetti nella terra, ai fìli d’erba, ai fìori. Come se facessi parte di una cosa sola, immensa e perfetta. Credo sia la cosa più vicina al concetto di Dio di cui io abbia mai fatto esperienza.
A cinquantanove anni Woolf, come fece fare al suo veterano di guerra Septimus in Mrs Dalloway, decise che i suoi moments of being erano stati abbastanza. La sua ultima lettera trasmette tanta sofferenza ma anche tanta chiarezza di pensiero: “I don’t think two people could have been happier than we have been.” A dispetto di ciò che scrissero in merito alcuni giornalisti inglesi, trovo in Woolf molto coraggio e molto amore per la vita. In un’Europa che chiude ancora gli occhi davanti a chi assegna vita o morte, in cui disporre del proprio corpo è un privilegio di pochi, in cui il dissenso è colpito con violenza, Virginia Woolf mi parla di consapevolezza, di emancipazione, di gratitudine e di lasciare andare quando si sente che è il momento di farlo.
Giulia Bianco
A proposito di “Sulla malattia” di Virginia Woolf
Qui è rimasto qualcosa di noi. Una vita segnata. Una mente libera.
15 Marzo 2024 at 9:07
Bella e commuovente visione di una grande autrice!