Da piccolo, quando avevo la febbre, e debbo dirvi che quando ero molto piccolo ne soffrivo spesso, almeno fino a quando il medico non decise di praticarmi una tonsillectomia, facendo nascere in me una vera e propria fobia di ogni minima seduta in sala operatoria, comunque da piccolo, anche non così piccolo, visto che le tonsille me l’hanno “tolte” a quattro anni, stavo tutto il giorno nel letto grande dei miei genitori, semplicemente perché lì c’era la televisione e io potevo guardarla. Così da piccolo e con la febbre, più o meno alta, io guardavo la televisione e spesso le telenovelas sudamericane, che sono ancora adesso una sorta di piacere proibito che mi concedo di tanto in tanto; in questi film il punto di svolta è spesso contenuto in una sorta di agnizione, di epifania da parte del protagonista o della protagonista, che scopre di essere stato adottato/a o  per una serie di eventi tremendi che si ritrova orfano/a e senza nessuna speranza. Un giorno, dopo una sessione piuttosto robusta di puntate di una di queste serie, con la mia mente indebolita dalla febbre alta e il corpo provato dal silenzio della casa e dalla solitudine, mi convinsi che io ero stato adottato, e che i miei genitori giacevano in qualche cimitero dimenticato sulle colline fuori dal paese. Il pensiero fu così forte, la convinzione così energica, ossessiva e puntuale che tutto mi parve chiaro: qualsiasi mio disagio, fatica o mancanza acquistava, alla luce di questa rivelazione ovvero che ero orfano, una chiarezza adamantina tale da costringermi al pianto e di quelli disperati, IN quegli istanti ho sentito  dentro me un dolore che, credo, poche volte ho provato: l’abbandono la solitudine, la disperazione presero possesso della mia testa e del mio corpo, mi sentivo sconfitto, lasciato da solo, erano tutti morti, sepolti nel folto del bosco dietro il paese; quindi mi misi ad urlare e il pianto aumentò di intensità tanto che mia madre, quella vera, venne tutta in apprensione e mentre mi calmava, mi misurò la febbre. Quaranta e mezzo sentenziò, era una febbre, almeno quella in cui colpì in quei giorni, tignosa, testarda e duratura, che ostinatamente non volle sapere di abbandonarmi, fino a quando in una mattina mi sorpresi a contemplare il sole che nuovamente conquistava la mia stanza, in quel momento provai un intimo sollievo, la mia mente era fresca e avevo ben chiaro chi fossero i miei genitori: ero sfebbrato.

Per molto tempo non ho dato peso a questo accadimento, che è sedimentato nella mia memoria, sprofondato sotto uno strato di giorni, uguali agli altri, fino a quando – circa 3 anni fa – ho letto un breve e denso saggio di Virginia Woolf dal titolo Sulla malattia (Bollati Boringhieri, trad. Nicola Gardini). Il ricordo mi è tornato alla mente quando i miei occhi sono capitati su queste poche righe della Woolf: “C’è, confessiamocelo (e la malattia è il grande confessionale), una franchezza infantile nella malattia; si dicono cose, si sputano verità che il guardingo decoro della salute tiene nascoste” (p.14). Per quanto tempo, decine di anni, ho tenuto nascosto questa terribile fantasia dei sentirmi diverso, perché per tempo immemore in questi anni non sono mai ritornato a quella lancinante convinzione di essere orfano, di essere stato abbandonato? Il guardingo decoro della salute, eccolo che mi si mostra davanti, si apre ai miei occhi  e mi dice Non si fa, afferma che non è bene guardarsi dentro di sé con questo disprezzo, con un tale ostentata violenza. Insomma come è possibile, e chi lo vuole veramente, essere franchi, veritieri? La malattia, il febbrone violentissimo di cui sono stato vittima mentre guardavo la televisione, mi ha messo in contatto con qualcosa che ignoravo di me, qualcosa di così profondamente storto, obliquo rispetto al mio essere nel mondo che l’ho nascosto per spavento. Mi dicevo: Quale cervello di uomo sensato, di persona raziocinante, sana, salubre può produrre una fantasia così possente, così intima e convinta da culminare nell’immedesimazione con un orfano, che ha perduto tutto? Ho sempre avuto paura di rispondere a tale questione, spavento nel dire che quel cervello è il mio, quell’anima è la mia, quel buio che mi circonda la mente, che spesso mi schiaccia il cuore e produce le mie tremende immaginazioni, è il mio: la febbre, questo leggero sviare della consapevolezza dai binari consueti e soliti, mi ha portato a sentire la mia alterità, il mio essere altro rispetto a ogni cosa, a riconsiderare la mia esistenza, i miei bisogni, le mie penurie; lì in quella febbre, in quella malattia protratta, in quelle lunghe giornate di tedio, silenzio, nella osservazione disincantata del luminosità del cielo, nello spicchio che dalla finestra si vedeva, nel suo variare nei giorni, è nata la fissa di scrivere, di produrre un posto nel mondo che mi appartenesse, e che in qualche modo supplisse a ogni mia mancanza: con la letteratura ho potuto dare voce a quello spavento supremo, a quello sbigottimento prodotto dalla febbre, dall’influenza, dal sentirsi vulnerabili e morenti, ho potuto dare sfogo alla mia paura, al mio desiderio, alla mia certezza e fantasia: siamo tutti orfani, abbiamo tutti a che fare con una mancanza, con un bisogno, con una necessità sottaciuta, scrivere è uscire di casa a comprare un mazzo di fiori per la festa che darai nel tardo pomeriggio, oppure avventurarsi a tagliarsi i capelli nel Bronx sapendo che sarà l’ultima cosa che farai nella tua vita. La malattia, per quanto minima e rarefatta come può essere un’influenza, mi fatto sentire una mancanza che niente e nessuna cosa mi colmerà, che niente e nessuna cosa potrà mai spiegare.

Così queste poche dense e luminose pagine della Woolf sono diventate uno dei testi con cui ho imparato a guardare in modo nuovo la realtà e l’atto letterario, potrei stare qui molto tempo a parlare di quest’opera, che è di una grandezza e limpidezza cristalline. Sulla malattia è un saggio che dovrebbe essere letto per ragionare appunto sulla malattia come metafora nella letteratura novecentesca, con una serie di ragionamenti che in parte dalla Sontag ne La malattia come metafora. La differenza sostanziale, forse semplifico brutalmente, ma appunto è un pezzo, in essay divagante e non un saggio accademico, tra la Sontag e la Woolf sta nel fatto che per quest’ultima la malattia non attiene alla sfera del linguaggio, la malattia per la Woolf è come il dolore nelle riflessioni sul linguaggio privato di Wittgenstein, ovvero mette alla prova il linguaggio, lo forza tanto da annullarlo. Vorrei evidenziare due cose del testo della scrittrice inglese. La prima sta nel fatto che la Woolf sottolinei come nonostante la malattia sia una condizione comune dell’uomo medesima al lutto, all’amore, alla gioia, o alla tristezza, essa abbia una minore presenza nella letteratura. La Woolf si stupisce molto di questo (siamo nel 1926 e il caso Svevo era appena agli inizi) tanto da scrivere: “Appare davvero strano che la malattia non figuri insieme all’amore, alle battaglie e alla gelosia tra i temi principali della letteratura” (p.7). Certo ora non è più così, la letteratura ha scoperto la malattia, mi verrebbe da dire fin troppo! Da lettore di romanzi, editi e inediti, spesso mi pare che gli autori cerchino di affibbiare al loro povero personaggio una malattia che sia, però, alla moda, che sia in qualche modo spendibile: c’è stato un momento nel quale tra le pagine dei romanzi andava di moda lo spettro autistico, ci sono malattie molto cool (sindrome di Asperger) e altre che nel leggerle creerebbero disagio (la stipsi ad esempio ovvero un’acuta forma di stitichezza). L’autore, quindi, deve fare attenzione deve scegliere la malattia giusta, quella che può produrre immedesimazione: vuoi mettere avere una malattia che viene descritta con tratti genialoidi rispetto a una semplice disfunzione fisiologica anche un po’ fastidiosa e imbarazzante?

Seguendo il saggio, comprendiamo che la malattia, però, quale che sia, è fonte di imbarazzo, quasi fosse uno stigma, la Woolf pone l’accento proprio su tale disagio che è il secondo punto che voglio mostrare ai lettori. Secondo la scrittrice inglese la scrittura, la letteratura non possiedono un vero vocabolario per descrivere la malattia, la malattia sfugge sempre al dato del linguaggio, lo mette in crisi lo elude, lo stana nelle proprie debolezze: “Infine a impedire la descrizione della malattia in letteratura ci si mette anche la povertà del linguaggio”.

La malattia ci porta a scoprire che noi manchiamo di parole, che le parole che ci circondano, e discussioni che facciamo, che i libri che parlano sono solo un’ombra scarsa e non sempre esatta di ciò che succede nella realtà: davanti alla malattia l’esperienza dell’uomo è semplicemente il mutismo, è la discesa dentro qualcosa di orrendo e terribile; la malattia segna una sorta di alterazione della consapevolezza, dona all’essere umano la possibilità di sentirsi corpo. L’uomo, così occupato con la coscienza, con la cosiddetta interiorità, ha smarrito il segreto dell’essere carne, muscoli, sangue, liquidi: “La gente non fa che raccontare le imprese della mente: i pensieri che l’attraversano; i suoi nobili propositi. […] Alle grandi guerre che il corpo, […] muove, nella solitudine della camera da letto, contro gli assalti della febbre o l’avvicinarsi della malinconia, nessuno bada” (p. 9). La malattia fa si che ognuno possa definirsi come carne soffrente; la malattia modifica il rapporto con il mondo, la Woolf si domanda come una semplice frase “sono a letto con l’influenza” possa nascondere dentro di sé la grandiosa esperienza “di come il mondo abbia mutato forma” (p.11). Tale esperienza, dice la scrittrice, “non si può comunicare” (p.12), perché fa parte delle “cose mute” (p.12). La malattia è indicibile, pone l’essere umano davanti a una soglia che può varcare, le parole mancano: tale eradicazione della parola ci dispensa dalla vita sociale, non potendo comunicare più, perché le parole mancano, ci chiamiamo fuori dal flusso della vita, lontani a ciclo di consumo, ci troviamo a fluttuare “con i ramoscelli nella corrente; confusi come le foglie morte del prato, irresponsabili e disinteressati e capaci, forse per la prima volta dopo anni, di guardare intorno, di guardare su – di guardare, per esempio, il cielo” (p.15).

La malattia ci consegna a una vita che scorre in modo differente rispetto alla modernità, ci mette in una condizione di contemplazione gratuita, fuori dai cicli di produzione, fuori dai formalismi della società che ci spinge a fare, a dire, a essere e a partecipare: malati non possiamo prendere parte, malati non siamo accolti nel cerchio della società, ce ne stiamo in disparte foglie morte, briciole di pane sul davanzale, ossi di pollame mordicchiati da gatti, pietre sul gretto del fiume, malati esperimentiamo la vita vegetale, la vita senza altro scopo che essere vita, e questo ci sbalestra, ci porta a contemplare qualcosa di dissestato, e ne siamo spaventati: “la prima impressione di quello straordinario spettacolo stranamente ci sopraffà. Di solito osservare più o meno a lungo il cielo è impossibile” (p.15). Il linguaggio della malattia è quello della poesia, la poesia, proprio perché fa esperienza della povertà, perché I poeti in tempo di povertà?, è in qualche modo la possibilità di dire, risalire il fiume del nostro corpo, delle nostre sensazioni, arrivare al confine della nostra follia, delle nostre ossessioni, toccare infine con mano in nucleo pulsante del nostro essere qui ora, il nostro destino, la malattia ci regala questa possibilità, di collegarci alla nostra incoscienza, al buco nero che abbiamo nel cuore, ognuno il proprio: “l’incoscienza è una delle qualità della malattia” (p.24). Spesso malati – una febbre alta, un raffreddore stordente, un dolore lancinante alla schiena che ti blocca i movimenti, un’emicrania stordente – vaghiamo nel territorio umbratile della nostra vita intima, vediamo i nostri demoni, i nostri fantasmi: essi ci appaino quasi concilianti, ci invitano a osservarli, a fare pace con loro, qui, dicono, qui, nella chora della malattia, nello spazio aperto della febbre, nel breve delirio prima del sonno, qui, dicono, potrai trovare la risposta alla tua domanda, alla tua esistenza, qui, dicono, potrai comprendere cosa ne sarà della tua esistenza quando la crisi passerà, quando la malattia che chiamiamo vita ti darà requie e ci consegnerà ai sani, ai tristi, desiderosi di un ultimo accesso febbrile, fermi “a guardare il carro che si allontana”, divorati dall’angoscia.

Demetrio Paolin