Ho immaginato un’ampolla preziosa nella quale le ispirazioni di Laura Serluca si miscelano in composizioni raffinate e misteriose. La sua scrittura è la trasformazione di una sostanza primaria, un movimento dell’anima che procede attraverso un processo poetico complesso.

Come un’alchimista, opera nel suo laboratorio segreto, con abilità e passione fonde le parole in un crogiolo trasformandole in oro puro: le seleziona con cura, le respira e infonde loro la vita. Non si accontenta del visibile e dell’ovvio, la sua scrittura è una radice profonda che si espande nell’anima, ogni verso composto richiama a un atto di magia connesso con dimensioni parallele. 

Le sue parole non sono solo veicoli di comunicazione, ma codici enigmatici da decrittare, ogni verso è un indizio, un tassello rivelatore. Compenetrare i suoi simboli richiede dedizione, sensibilità e attenzione.

Serluca modula il suono delle poesie destreggiandosi tra armonie e dissonanze, tra tangibile e ineffabile: con uno stile audace e inconfondibile si avventura per territori eversivi tessendo con passione i fili di un’elegante ricerca introspettiva.

La sua immersione poetica è quasi un atto di coraggio. Ogni parola si dichiara, crea un effetto sorprendente con un lessico inconsueto, e per farlo, si consegna completamente facendosi ponte tra sé stessa e l’alterità: è il suo modo di sfidare le convenzioni linguistiche a favore dell’inatteso. Il suo kléos poetico non è solo l’espressione di un’abilità tecnica, è intimità con il linguaggio. 

La struttura libera delle sue liriche contribuisce a disgiungere la pretesa interpretativa della ragione dalla sua libertà metrica: mi torna alla mente Novalis il poeta, scrittore e teologo tedesco di fine settecento, che ci invita a considerare il linguaggio come “un mistero portentoso e fecondo, capace di raggiungere il significato proprio quando lo si separa dall’intenzionalità razionale. Il linguaggio, prosegue Novalis, gioca con sé stesso, senza esprimere altro che la sua meravigliosa natura ed è nel suo guizzo creativo, che si riflette l’insolito sentimento delle cose. È solo nel suo libero fluire che si manifesta l’anima del mondo”.

Nella raccolta Sono stata via cent’anni l’io poetico dell’autrice dota l’ispirazione di un tenore espressivo autonomo, a tratti arcano, ma è proprio questa la spinta intrinseca che apre le braccia a nuove possibilità, permettendo alla poesia stessa di trasgredire il pensiero usuale. La silloge è infatti un repertorio originale, la cui singolare forma stilistica intride il foglio di impavidi pensieri, come immergere le mani in flusso sotterraneo dal quale affiorano sfavillanti incantesimi.

La parola scritta è una cerimonia, l’ordinario si tramuta in straordinario: l’uso magico del verso non è un artificio stilistico, bensì un rituale di connessione. 

Ogni rigo sottende un filo impercettibile che la poetessa sgomitola fino al lettore, il verso è una chiave incantata. 

Non è un testo usuale, il suo, ma un portale che si apre tra il reale e l’immaginario, tra il quotidiano e il metafisico. 

Ammetto che il viaggio con Serluca mi abbia condotta per un passaggio segreto, sino ad un’isola poetica di forti correnti e suggestioni di estremo impatto. La sua specialità è nell’evocazione di potenze arcaiche, nella recitazione delle formule magiche che disserrano voci ciclopiche. Senza recinti di spazio e di tempo, esse si spalancano ogni qualvolta la formula espande il passaggio tra la realtà e la sua immaginazione visionaria.

Come sostiene Nietzsche, “la lingua originariamente era un coacervo di simboli sineddochi e metafore.” La scrittura di Serluca ribolle in questo alambicco di alfabeti e di segni primordiali, dove fermentano formule magiche e sillabazioni ermetiche, e dove la trasmutazione della cellula, sgrava la creatura in occulta metamorfosi.

L’ispirazione della poetessa intende sconfinare la materia delle sue visioni: compenetra le sue pulsioni, compie lo sforzo di tradurre innanzitutto i cosmi di sé stessa per poi darsi alla luce. Nel suo affresco la dimensione magica è spesso figlia di un sogno sbalorditivo. Immaginiamo di leggerne le poesie e di vederne schiudere la porta alchemica, non mi stupirei se ciò accadesse: ogni verso è un’incantazione, e come in un testo di letteratura ermetica, le parole generano forze e principi. Dunque l’azione è prodigiosa, gli ingredienti si dispongono nell’anima sprigionandosi in un’apparizione. 

La creatura di Serluca sfugge alle catene della razionalità. È un enigma, un mistero che si svela solo quando si è disposti a consegnarsi senza pretese: incontrarne l’entità richiede pazienza, rispetto ed umiltà. 

Simile a un fiore che si allunga al cielo, la sua potenza si manifesta con graduale sorpresa, non si può soffocarla, l’unica scelta è di lasciarla germogliare per cullarsi nel suo effluvio suadente.

Quando ci si immerge nella poesia le parole esigono di essere accolte senza giudizio: si è spettatori di un evento sovrannaturale, non ci è dato di sistemarlo, si deve assistere con sacro silenzio, e quanto più si osserva e si rispetta, tanto più si rivela il suo superbo spettacolo.

Nel calderone magico dell’autrice la poesia ferve tra fiamme e antica sapienza. Nelle “notti senza tempo” eccola assorta in un delizioso incantesimo mentre volteggia la penna in cerchi misteriosi. 

Dal suo manoscritto fatato si levano realtà incredibili come da un libro pop-up: viene voglia di recitarne le formule e di aspettarne le fisarmoniche tridimensionali ad ogni giro di pagina.

Nell’atelier della poetessa-alchimista gli elementi primordiali si aggregano in note di sinfonie ancestrali: acqua, aria, terra e fuoco imprimono l’orma della Musa.
I poeti, al pari dei maghi, evocano gli spiriti creativi e insieme fucinano alfabeti come prime parole. Ogni simbolo è ancorato alle righe a guisa di sigillo, un colpo di bacchetta magica e l’autrice compie un “sortilegio” linguistico:

“Calche di turchese/e dulcedine avverarsi/gocciare nello sfilarsi/in brocche sciogliersi/a stellare sporgersi/scorte di cielo/in campanelle di mare/e paglie di luce.”

I poeti non sono forse dei maghi che invocano la bellezza ipnotizzando le parole come incantatori di serpenti?

Sono stata via cent’anni è un astro tra le mani, mi è parso di sentirne la corrente di luce e di pizzicarmi con la sua scintilla.

Il titolo mi ha affascinata: indica un periodo protratto di assenza, un luogo di sospensione: è un viaggio fisico, oppure la metafora interiore di un’anima che si allontana e poi ritorna? 

L’autrice potrebbe aver vissuto un lungo percorso di crescita, di trasformazione o di ricerca di se stessa… cent’anni possono essere un’eternità o un istante, poco importa. Il suo “rebus” esistenziale si poggia sulla tensione che precede la domanda, risolverlo non è determinante, non impedisce di sorseggiare il calice della lontananza, che forse, è un ritorno a casa. 

La nostra alchimista, assistita da un daimon, riceve un mazzo di Tarocchi: con un abito da antica sacerdotessa si presta a divinare gli Arcani che le sono stati consegnati. Il suo processo ideativo sembra volgere verso un’evoluzione intuitiva tentando uno spazio di mezzo, una sorta di fibra connettiva che unisca due mondi diversi, da una parte divina e dall’altra umana.

La mia sensazione è che Serluca cerchi di conciliare il suo dentro e il suo fuori, il suo sacro e il suo profano, avvicinando la tensione degli opposti nel suo stesso dialogo poetico, generando un’altra, meravigliosa opportunità:

“La luna sentinella/si siede su una voce/a spartirsi/il faro e la zattera/e puntellare/libellule-la conchiglia a spiantare la Torre/addolora la terra che oscilla di nervi e polpa antica/fino a spogliarsi dalla ferita spavalda/-che bolle di loto-/e vacilla-a gocciare negli altri corpi cacciatori.”

Mi piace sperimentare una personale decifrazione delle sue visioni senza presumere i suoi sentimenti e i suoi intenti, posso solo sbirciare con discrezione tra gli spiragli delle sue stelle.

La luna sentinella ha l’aspetto di una guardiana, la voce su cui si siede può essere un segreto, una verità nascosta o silenziosa.

Il faro e la zattera si oppongono: il faro illumina e guida, mentre la zattera è fragile e vulnerabile.

Le libellule, leggere e spirituali, sono foriere di trasformazione.

La conchiglia a spiantare la Torre è un’immagine potente: dalla sua fragilità, la conchiglia si adopera per spiantare una struttura pesantissima e ingombrante, è probabile che voglia liberarsi da ciò che ora non le serve più, somiglia a una catarsi, a un rito di purificazione. La Torre stessa reca cambiamenti improvvisi, distruzione e trasformazione, ma agisce da una forza sismica che la conchiglia non può esercitare: ecco le opposte tendenze che conciliano in quel luogo di mezzo dove si riequilibrano e si risolvono.

La terra che oscilla di nervi e polpa antica suggerisce un terreno instabile, emotivamente colmo.

La ferita spavalda la interiorizzo come metafora di una ferita orgogliosa in una vulnerabilità celata.

La bolla di loto mi riempie di purezza, di freschezza spirituale, mentre la vacillazione rinforza una certa incertezza.

Alfine, il gocciare negli altri corpi cacciatori potrebbe riferirsi a una contaminazione, a un’esperienza trascorsa dalla quale ora è bene prendere le distanze.

La donna Serluca si caratterizza libera e selvaggia, spirituale e incarnata, fisica e incorporea, la sua lirica tratteggia stati spirituali e mistici, contempla preghiere immanenti e trascendenti, il suo ente poetico è solenne e archetipico. Ribelle alle convenzioni sociali celebra la vitalità della sua anima in un femminile lunare, ascolta e traduce i messaggi dell’Eremita, del Matto, della Luna, della Forza, del Carro, dell’Imperatore e della Regina, conversa con le energie universali. Le sue liriche sono cerimonie antiche che simbolizzano il visionario in canti di guarigione, il suo spirito iniziatico scardina la rigidità dei segni e frantuma i dogmi delle regole:

“Faccio un sogno di madre/riempio di malva la lanterna/tra il brusìo dei calabroni/inesperta fattucchiera/infilo dell’ebano nella preghiera/a guarire la ferita/un flusso di mani sante.” 

La pittura del sogno di madre che riempie la lanterna di malva tra il brusio dei calabroni, è un gioiello incastonato in una delicata allusione di cura. 

Rifletto sull’ “inesperta fattucchiera” che tenta di guarire una ferita con un “flusso di mani sante”: nella mia fantasia l’autrice pare mettere alla prova il suo potere personale mirando unicamente all’essenzialità dell’anima, una prova difficile, che le richiede l’incontro con le sue fragilità e paure.

Tuttavia, il suo cammino è già nella direzione della “guarigione”, da “inesperta fattucchiera” è destinata al risveglio della curandera:

“A tacere era l’agitarsi/di ali di rondine/a disorientarle la boscaglia/della falsa porta/l’isteria di una scappatoia/a sbeccare la mia schiena/e strascinarla fino al cielo al variare del disegno divino (…)-spiantarmi da lontani volti/fino a rendermi forestiera/sulla soglia della porta dell’Orizzonte.”

Oso ipotizzare che la silloge “Sono stata via cent’anni” sia la preconizzazione di una rinascita,” quel qualcosa di non ancora perduto“.

Giulia Metelli