Questa è la storia di una ragazzina singolare che, in una sua personale forma di anarchia, vive dentro un baule, che ricorda una bara, dove trova rifugio dal mondo, dal mondo dei grandi. È l’unico luogo che riconosce come suo e che coincide con la fine della sua esistenza. Una ‘stanza tutta per sé’ che funge da armadio, da letto, da credenza, da osservatorio distante ma critico sugli altri dove – accanto a brandelli di coperti e libri intrisi di muffa – prendono forma in lei pensieri pungenti, eversivi e disarcionati dal quotidiano opaco in una ridda di fantasie e sogni:

«Se il suo corpo era carne come quella esposta sui banchi dei mercati o appesa nei negozi dei macellai, lei tuttavia vi portava nascosti un pensiero e un sesso che era la sua ragione».

In quella nicchia la bambina si sente ondeggiare e soffocare come appesa dentro una tela di ragno ma resiste perché le alternative che offre ciò che sta fuori il baule non la allettano, perché solo ‘tra quelle quattro mura’ può nutrire i suoi istinti, piuttosto avventurosi per la sua età, e quella forza viva che vuole scoprire l’intima ragione delle cose, anche le più insignificanti, quei «semi che stanno nascosti per difendersi e poter nascere». Solo lì, in quello piccolo spazio, si sente libera.

I familiari la considerano poco più che un mobile da spolverare ogni tanto e, se mai la cuoca la trascina fuori dal baule a forza per farle prendere un po’ di aria, lei acconsente ma non guarda mai in alto ma a terra, alle cose che imputridiscono sull’asfalto tra le quali è costretta a camminare con un corpo che le hanno messo addosso. Solo la madre continua a sollecitare l’uscita da quella bara insistendo su un imminente crepacuore per il dispiacere: il suo non è affetto filiale ma solo interesse per il decoro della casa che è come una macchia che tutti vedono e giudicano.

Date queste premesse, è chiaro che nella Roma bene degli anni Trenta, dove le apparenze hanno il loro peso e alimentano le chiacchiere nei salotti dell’alta società, quel «grumo di sporcizia bassa» – ma dai pensieri altissimi scopriremo presto – diventa motivo di imbarazzo tanto più che va a minare l’idea della donna che il Fascismo, allora imperante, vuole moglie irreprensibile, accorta massaia – nel senso di domina, governante degli affari della casa e delle funzioni generative – e madre prolifica. Di conseguenza non è accettabile un essere umano come lei regredito allo stato ferino per un popolo italiano che si pone agli occhi del mondo come esportatore di civiltà.

«Vestita mi hanno voluta, agghindata, adorna dei loro usi, calzata di luoghi comuni per muovere il passo al loro fianco nella vita, coronata di pregiudizi, ammantata di incomprensioni».

Così si decide di farla sposare a un buon partito ma dopo un attento lavoro di restauro e di presentabilità all’esterno, una sorta di lavacro rituale. Ma attenzione, è lei a uscire di sua iniziativa da quella cattività ed è lei che, tra lo stupore generale dei familiari e della servitù, coordina la sua elaborata toilette femminile perché «sa che questo corpo è abbastanza interessante, ci si può lavorare sopra come il piano regolatore di una città». In questo passaggio la accompagna la consapevolezza di presiedere alla sua seconda nascita, annientando la prima e la sua autenticità, e di entrare di fatto nel vivere civile andando a occupare il posto che le è stato assegnato.

Tuttavia la sua decisione non è una resa incondizionata perché la giovane ragazza è una persona tutt’altro che addomesticata. Come i fatti dimostreranno, la sua uscita dal baule porta con sé il sapore della sfida e del sabotaggio perché quel corpo, che in fondo era bastante a sé stesso, ora è libero di muoversi, di osservare da vicino quel fuori, di congiurare, di rivelare le tare di un mondo che pensa di essere tutto e che invece si rivela un grande vuoto, di puntare il dito, prendendo sé stessa come esempio sacrificale vivente, contro la schiavitù femminile. Le sue invettive sono irresolubili, amare, con un afrore tanto frontalmente opposto alla morale dell’epoca:

«Tutto il tempo è passato, tutta la poesia del mondo è trascorsa per una donna, da quando voi uomini le mettete sulle spalle la casa. Mangiare è sapere un giorno prima quanto masticherai il giorno dopo, sapere quanto costa, sapere come fu fatto, paventare lo spreco, dubitare il furto; dormire è annusare a ogni respiro la varechina delle federe. Voi volate, non stiamo a terra. Ci portate appena, dei vostri voli, i paracaduti rovinati, perché vi si rammendino, smacchino, pieghino, ripongano»

Nella sua nuova casa, nella sua nuova vita, dove abbondano stanze e domestici, mentre di notte il suo occhio si sposta sugli oggetti per indagarli, sviluppando un impulso di tenerezza nei confronti delle pareti, dei marmi, come se fossero parti del corpo di un figlio, come per i fiori che cantano di continuo nel suo giardino, di giorno si adegua a quanto ci si aspetta da lei, dirige la casa, con una forma compulsiva per la pulizia di ogni angolo, in singolare contrasto con la sporcizia del baule dove ha vissuto a lungo, vede altre donne, va in visita da loro come si conviene ma sempre attenta a non pensare troppo forte. Si insinua così in quell’alta società, ne prende le misure, e si immerge in profondi monologhi interiori dove setaccia le persone e gli ambienti che frequenta e li pone in relazione al suo nuovo e vecchio lei con l’istinto del dubbio, dell’agguato e della difesa.

Poi arriva il momento di dare un ricevimento e la Massaia deve essere all’altezza del compito, di come lei ha deciso di essere: Massaia. Tutto cioè deve essere studiato nei minimi particolari, non solo l’ordine dei posti o le pietanze pregiate da servire, ma anche i momenti in cui, come in una grande complotto studiato ad arte, gli invitati, sentitisi liberi di parlare di sé più liberamente e senza dare troppa retta all’etichetta, riveleranno la loro vera natura. Da questo momento – e siamo in uno dei passi più emblematici di questa lunga storia – il lettore si trova non più tra le pagine della classica narrazione ma tra quelle di un libretto teatrale.

Qui avvertiamo echi di Pirandello e di Beckett e punte goldoniane nel ricreare l’ambiente del ricevimento, i doppi fondi e i doppi sensi degli invitati, le battute salaci e le maschere indossate con l’abilissima regia della padrona di casa che, come in una commedia, fa parlare i personaggi a gruppi come su un palco. C’è, tra gli altri, il coro delle donne di una certa età che amoreggiano negli angoli più inosservati del giardino mentre hanno davanti uomini dell’età dei loro figli; c’è quello dei signori mariti che si chiedono come abbiamo potuto sposare donne che si sono rivelate poi serve e che fanno comunella con i domestici con la testa piena di pettegolezzi, giochi di carte e intrighi; c’è quello delle donne di piacere i cui incontri restano memorabili per i clienti che trovano con loro quello che manca a casa; c’è una affastellarsi di voci che si aprono alla confessione più spinta e quindi sincera, tableau vivant di personaggi di un disperante rituale collettivo dei ceti alti, mentre la Massaia, con atteggiamento da predicatore, quasi da Commendatore del Don Giovanni, prende la parola e declina il suo catalogo, definitivo, sulla condizione femminile:

«La conclusione è che dopo pochi anni di matrimonio, o molti, ogni uomo trova che la propria donna è un agglomerato di volgarità e comincia a insidiarne un’altra che a sua volta per il proprio matrimonio non è che una serva o, grande onore, ‘la madre dei miei figli’. Catalogate, gli uomini continueranno a considerarci buone per un’ora e poi a casa a badare ai figli, alla cucina o al salotto, che fa lo stesso. Ma fuori dai piedi, fuori dal suo cervello, se non dal suo cuore»

Poi la Massaia va a vivere da sola a Roma in un piccolo appartamento e poca servitù con la quale instaura un rapporto paritario con lo scopo comune di fare funzionare la casa dividendosi i lavori, senza più persone da sorvegliare, riprendere e avviare. In altre parole: ha smesso di essere la Massaia e cominciano per lei una serie di incontri, di vagheggiamenti e di nuove realtà sopite sul crinale di una dimensione onirica e inquietante … La accompagnano verso questo ultimo atto la fierezza di avere dimostrato, con la propria esperienza, che la densità delle donne nel peso della vita, al di là di germinanti illusioni, non è mai aumentata, ingabbiate come sono in un unico uniforme, il desiderio di continuare a fare escursioni in regioni ardue e interdette alle stesse donne incapaci di volare con ali sgualcite e macchiate dall’unto del servaggio e la presa di posizione che il ruolo sociale che le era destinato non si trovava fuso con quello biologico…

Paola Masino, figlia spirituale di Pirandello e compagna di una vita di Bontempelli, è stata scrittrice, traduttrice e giornalista, dal grande acume visionario. Mai allineata e ascrivibile a qualsiasi corrente letteraria, insofferente delle condizioni, è stata artigiana di cosmogonie ardite e perturbanti peripezie nella coscienza collettiva italiana con uno stile ruvido ma corposo che l’hanno resa a buon diritto, riprendendo il titolo del fortunato testo di Sandra Petrignani, una delle ‘Signore della scrittura’ del Novecento Italiano che si può riscoprire oggi grazie ad un’editoria di ricupero.

Nascita e morte della massaia è il suo romanzo più decisivo, più provocatorio. Un libro, per sua stessa ammissione, «maledetto» per la fatica che le è costato scriverlo e riscriverlo, dopo che le bozze andarono bruciate durante un bombardamento, e per le vicissitudini editoriali cui andò in contro con la censura fascista prima che ne richiese una versione epurata e la guerra poi che ne tarderanno la pubblicazione al 1945. Ma è anche un libro ‘cometa’ destinato a comparire e scomparire ciclicamente nelle librerie ma capace di illuminare ogni volta, in uno sbigottimento ammirato, per la sua attualità raccontata in modo vibrante, iniziatico e non di facile approccio.

Come nota Nadia Fusini nell’introduzione all’edizione Feltrinelli, parlando di testo ancora vivo, «i libri più interessanti sono quelli a cui occorre tempo perché trovino i lettori all’altezza della loro intensità, densità e profondità». Aggiungiamo che lo sono anche quando sono capaci di spaziare tra atmosfere surrealiste e oniriche e lucida e spietata ironia sulla realtà, alternando, senza preavviso, anche nello stesso capitolo, cambi di registro e generi letterari, e provocando nei lettori spaesamenti e disorientamenti che rendono la lettura un’esperienza imprevedibile. E quando si intercettano i passi di una donna che percorre avanti e indietro i luoghi terreni come i giorni e abbandona il senso unico obbligatorio senza curarsi della confusione che porta tra i passanti.

Claudio Musso
https://www.instagram.com/claudio_musso