Velibor Čolić, Le livre des départs, Gallimard 2020

Sono un migrante, un cane ferito mille volte che sa esplorare una città. Esco e faccio dei giri nel quartiere. Annuso i bar e i ristoranti”.

Attraverso il racconto del proprio esilio, Velibor Čolić racconta l’erranza di un migrante alla ricerca della nuova identità.

Libri, donne, musica jazz, e autoironia aiutano il protagonista a affrontare la burocrazia, la nuova lingua e gli incomprensibili rapporti tra le persone.

E poi c’è la scrittura, dove nel caso di Velibor Čolić lo stile non è una questione di tecnica, ma di visione.


Inventario

(DESCRIZIONE E DETTAGLI)

Mi chiamo Velibor Čolić, sono un rifugiato politico e uno scrittore. Tra il cielo e la terra, occupo uno spazio di 107 chili e 195 centimetri. Sono un poliglotta. Scrivo in due lingue, francese e croato. Ormai mi sembra di avere un accento anche quando scrivo. È così. La mia frontiera è la lingua; il mio esilio il mio accento. Abito il mio accento in Francia da ventisette anni. Tutta una vita praticamente. E mi sento bene, talmente bene che mi capita di pensare: ma pensa, sono un francese.

Nel 2008 è arrivata la crisi finanziaria e con lei un risveglio della paura per gli stranieri. Hanno cominciato a dirmi che non sono francese. Da allora mi faccio andare bene lo sguardo che portano su di me e sorveglio le Borse di tutto il mondo. Niente capita per la prima volta, tutto entra in questa terribile ripetizione. Allora vivo, guardo e annoto. Il mio cognome suona come una scusa. Anche il mio nome. Sono apolide. Una cosa è certa: sono il numero 35030002019-13/06/1964, come indica il mio titolo di soggiorno. Sono un rifugiato politico. So parlare. So anche cantare, quando voglio – Georges Brassens e Adamo, Tombe la neige.

Il mio nuovo paese è invecchiato con me; è comodo come un paio di scarpe dell’anno prima. Sono quasi come tutti: spaventato dalla violenza commessa in nome di Dio, perso davanti al triste Mediterraneo diventato cimitero blu, intenerito a volte davanti all’umanità. Il mio universo mentale è costituito da segni e gesti: imparare e dimenticare allo stesso tempo. Prima imparare, poi dimenticare. Separatamente. L’esilio è bipolare. L’esilio è una bilancia. Misurare il peso metafisico delle nostre acquisizioni e delle nostre perdite. Comparare senza sosta. Inventare allo stesso tempo il proprio passato e il proprio futuro. Scambiare la cittadinanza con uno “status”. “Ecco a lei giovanotto, ora ha il suo status!” mi ha detto la donna dell’Ufficio per la protezione dei rifugiati apolidi (OFPRA), con voce limpida e lo sguardo sorridente. Come se mi annunciasse che sarei diventato padre. Bisogna dosare bene e decifrare la differenza tra “paese” e “patria”. Tra la lingua dell’infanzia e quella dell’esilio. Comprendere bene anche, e gestire al meglio, le emozioni clandestine. Senza sorpresa il mio primo cambiamento è stato linguistico. Perché un rifugiato non parla, vive una lingua. La gioia di salvare la propria vita per sempre è stata sostituita dalla paura. Dove sono? Illetterato e “senza voce”, povero e senza documenti, ho cominciato la mia ricerca di verticalità di uomo eretto a partire dalla lingua. Passo a passo. Trappola dopo trappola. Un aneddoto dopo l’altro. All’inizio avevo probabilmente un piccolo vantaggio. Sono uno straniero “europeo”, invisibile. Sono uno straniero solo per la mia incapacità a parlare la bella lingua francese. Ridotto, annientato, ritornato all’analfabetismo. Era penoso. Un uomo che non dice mai niente, che non sa niente, e che oltretutto è povero, passa per forza per un idiota. Un’ombra.

*

Alla fine l’orizzonte si è schiarito. Sono diventato un uomo che può parlare, che capisce e che riesce, abbastanza facilmente, a farsi comprendere. Tombola! Il semi uomo è diventato Homo erectus, un vero uomo addestrato, un Homo sapiens per eccellenza. La verticalità ritrovata, come anticamera d’orgoglio, di fierezza e di coraggio. Una piccola finestra aperta sul mondo. Il mio secondo cambiamento si è inscritto nello spazio. La Francia è un grande paese fatto di camere basse, corridoi stretti, e ascensori impraticabili. Avevo l’impressione di abitare in un flipper, un mondo pericoloso e spigoloso. Morso mille volte da un angolo del tavolo, sbattuto cento volte contro una porta troppo bassa. Esitavo. Se rimpicciolire e scambiare i miei 1,95 metri con i 1,75, la statura media, o procurarmi un kit da portiere di hockey sul ghiaccio. Alla fine il tempo ha smussato gli angoli. Ora mi sposto come tutti. O quasi. Adesso sono armato, sono protetto dai miei tre airbag. Il tempo, lo spazio e la lingua. Ventisei anni di esilio, migliaia di chilometri tra il mio paese natale e la mia nuova vita, e la lingua francese. Che mi protegge, mi sdogana dalle paure e dai dolori.

*

L’esilio esige. L’esilio raccomanda di dosare bene la propria visibilità. Farsi notare solo dalle donne, e non dalla polizia. È un’arte. Diventare Signor Qualsiasi, Signor Ordinario. Addolcire i propri gesti. Radersi la barba. Cambiare pettinatura – abbandonare quella dell’est Europa per una più informale, “libera”, all’occidentale. La trasformazione del mio abbigliamento è durata diverse stagioni. Inverno-primavera 1993-1994: accorciare progressivamente i capelli, aggiungere una X supplementare alla XL delle mie camicie. Primavera-estate 1994: sbarazzarsi delle scarpe di cartone, conosciute anche come scarpe da cadavere e cacciare le parole “vecchio” e “usato” dal mio vocabolario. Sostituirle con “vintage”. Autunno-inverno 1994-1995: dimagrire, senza diventare magro. Dire bugie senza diventare bugiardo. Diventare definitivamente un manichino di seconda mano. E di seconda occasione. Tuttavia la strada della normalizzazione mentale è stata un po’ più lunga. Dal 1993 a oggi: imparare a dire grazie e prego, sempre e a tutti. È educazione. In realtà è più che educazione, è normale. Dal 1993 a oggi: imparare il silenzio. Spostarsi senza fare rumore, mangiare in silenzio, parlare piano, scrivere educatamente. Dal 1993 a oggi: ridisegnare le frontiere. Accettare la geografia politica come un destino. Le persone non vi chiedono chi siete o come state, ma semplicemente da dove venite. A volte rispondevo “Non vengo, sono rimasto qui”. Cercare, in ogni modo, la prova di non essere uno scherzo, un’invenzione. Come in un rituale, annotare e cancellare i nomi e i volti dei defunti cari. Cambiare aria e orizzonte.

Scambiare i ricordi con un nuovo destino; irrimediabilmente, cambiare l’acqua del proprio corpo in vino. In un Côtes-du-Rhône preferibilmente. Ogni mattina assicurarsi che la vita prima dell’esilio era reale. Dire, finalmente, e senza amarezza, a Parigi o a Strasburgo, a Berlino o a Amsterdam, ma anche a Sarajevo o a Mostar: “No, non sono di qui”. Perché l’esilio è raramente una questione di presenza. È, quasi sempre, una somma di ombre, una storia di assenza.


Velibor Čolić è nato nel 1964 in Bosnia Erzegovina e vive in Francia dal 1992.

Tra i suoi libri pubblicati in Francia, Jésus et Tito, Gaïa, 2010, Sarajevo omnibus, Gallimard, 2012, Ederlezi. Comédie pessimiste, Gallimard, 2014, Manuel d'exil. Comment réussir son exil en trente-cinq leçons, Gallimard, Le livre des départs, Gallimard, 2020.

In italia sono stati tradotti, Gesù e Tito, Nikita, 2011 e Manuale d’esilio, Bompiani 2017.

Les Choses è uno spazio dedicato alla letteratura francese contemporanea in cui proponiamo la traduzione di Cose inedite in Italia: estratti di romanzi, liriche, testi drammaturgici, novelle.
Una mappa incompleta e istintiva di testi che pensiamo meritino essere scoperti.

Au plaisir et bonne lecture!

Gessica Franco Carlevero