Le mele d’oro di Eudora Welty, Racconti 2021, trad. di Isabella Zani

(Hanno letto e scritto del libro: Elisa Bedoni, Emma Cannavale, Ornella Vaiani, Manuela Gessica Montanaro, Mayra D'Aprile, Alida Melacarne, Anna Rita Cappabianca, Giovanna Ferro, Palmina Colella, Nuvola Rinaldi, Chiara Damico, Sissi Patruno, Carola Maselli, Margherita Lomangino, Antonella De Biase, Maria Pilolli, Modestina Cedola, Angelo Chieppa, Giusi Tagli, Angela Dellorusso)

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Buona lettura!

A Morgana non si sfugge. Non si sfugge proprio a niente, lo sai.

“Scrivere racconti e romanzi è un modo di scoprire la sequenzialità nell’esperienza, di cogliere il principio di causa ed effetto negli accadimenti delle nostre vite di scrittori. O così è stato per me. Pian piano emergono i legami. Come lontani punti di riferimento ai quali ti vai avvicinando, causa ed effetto cominciano ad allinearsi, a ridurre le distanze; le esperienze dai contorni troppo vaghi per poter essere riconosciute si allacciano ad altre e vengono identificate in una cornice più ampia. E d’un tratto una luce balena all’indietro, come quando il treno fa una curva e ti mostra che alle tue spalle, sulla strada da cui provieni, cresceva una montagna di significato e ancora sta crescendo, un significato manifesto ora che lo si vede in prospettiva.”

Se dovessimo riferire di Eudora Welty in un’immagine, potremmo cominciare e finire direttamente con queste sue parole, tratte dal suo memoir di scrittura, uscito qualche anno fa Come sono diventata scrittrice (minimum fax).

La scrittura della Welty è misura di tutte le cose e di se stessa, non ha termini di paragone e non ha forse nemmeno discendenti diretti. Eudora è Eudora come Morgana è Morgana. Invenzione, sogno e realtà convivono nello stesso nome. Questa è la prima lezione che abbiamo appreso dalla lettura collettiva de Le mele d’oro, ripubblicato da Racconti Edizioni nella traduzione impeccabile e passionale di Isabella Zani. È una raccolta di racconti senza una concreta divisione tra le storie raccontate che hanno un filo conduttore che svela in ogni capitolo qualcosa che la Welty aveva magari solo accennato nelle pagine precedenti.

Ci si chiede subito cosa siano e perché un’autrice del Sud degli Stati Uniti, indipendente e già affermata, abbia scelto un nome così fiabesco per i suoi racconti. Eppure via via che la lettura prende il ritmo e si addentra nelle vicende di Morgana, nella contea di McLain, si intuisce come le mele d’oro siano i simboli della vita e che cambiano sempre, a seconda di chi è il protagonista-raccoglitore. E come ogni riferimento simbolico che si rispetti l’autrice ha compiuto un artificio letterario bellissimo: cucire il mondo di alberi, laghi, lezioni di pianoforte, fidanzamenti e pettegolezzi, sparizioni e ritrovamenti con le figure più classiche e mitologiche, per esempio Medusa, Zeus e Perseo.

Le mele d’oro è un’opera complessa e unitaria in cui i personaggi scivolano, a volte corrono frettolosamente da un racconto all’altro; più spesso scompaiono e, certe volte, aprono il sipario a braccia tese. La scrittura della Welty distrae e contemporaneamente ritrae. Chiacchiera Eudora Welty, mette un sacco di parole una accanto all’altra come in un lungo, accorto e precisissimo pettegolezzo: l’autrice dipinge e lo fa cambiando continuamente la fonte luminosa. La luce si sposta da un comodino a una pentola, dai tacchi alle radici acquatiche, dai capelli giallastri ai completi inamidati. E ogni cosa racconta. La trama è nei luoghi e nei personaggi. I fatti emergono a stento dai paesaggi, in mezzo allo sciabordio dell’acqua contro le barche, tra la polvere di vecchi pianoforti. I fatti non vengono narrati, non in senso tradizionale almeno: il lettore deve cercarli là, in mezzo al viavai dei personaggi: Virgie, i Maclain, Miss Snowdie, Loch, Jinny Love, Perdita Mayo, Easter, Nina sono storie nella storia eterna di Morgana. Più o meno tutti aderiscono, in maniera a tratti ironica, al nome omen: Miss Snowdie “è un’albina ma da queste parti nessuno mai si sognerebbe di dire che è brutta…”; Virgie “aveva sempre un’aria selvatica, ondeggiava e cedeva gioie e stizze, proprie e altrui, con uguale libertà“; Mr King Maclain “Le sembrò tanto superbo da farla barcollare”.

Il chiacchiericcio, costante, di sottofondo, il sapere tutto di tutti per poi rendersi conto che in realtà nessuno sa nulla di qualcuno. Solo impressioni. Quelle che ognuno ha degli altri, che spesso non collimano con la realtà. La Welty mostra entrambe le facce della medaglia: quel conoscere i personaggi tramite gli occhi dei residenti di Morgana e poi svelarli per quello che sono solo alla fine.

“Non sono i fiori ad essere effimeri, pensò Nina, è la frutta: è nel tempo in cui sono pronte, che le cose non durano.” Leggendo ricevi delle frasi così e tu stai lì a chiederti: ma esattamente, cosa vuole dire? Le risposte poi le trovi dopo, scorrendo una struttura a catena – tanti anelli agganciati uno all’altro da seguire fino alla fine.

In ogni racconto si snodano le vicende degli abitanti di questo piccolo centro del Mississippi con le loro dinamiche quotidiane: il campo estivo e i suoi pericoli eccitanti, la ricerca di un riscatto all’interno di una comunità con delle regole ripetitive che risentono del periodo storico in cui si svolgono, in cui vige la severità dello sguardo dell’altro, la caducità delle cose e dei punti di riferimento, essere anticonformisti ha un conto salato da pagare. La struttura dei sette racconti si regge sulla straordinaria lente (non a caso Welty è stata una bravissima fotografa) dell’autrice che rende le immagini con una precisione lessicale poetica, eppure vera, concreta.

Le mele d’oro è un raccolto florido e prezioso, in grado di offrire un’intera galleria di ritratti e paesaggi appartenenti a un’America paesana e borghese, che vive tra le amarene, con l’odore di cavoli cucinati, i suoi tradimenti e i suoi lutti, gli amori scontati e quelli appena sussurrati, col pragmatismo delle donne del sud e la poesia lieve dei laghi e della “notte assorta”. accanto a questo, quello che sorregge la lettura è la miriade di immagini luminose e colorate: come dei quadretti di pennellate, metafore, animali e molte donne tratteggiate in un modo spesso struggente. Eudora Welty l’animo femminile lo conosce molto bene, soprattutto quella parte che deve avere a che fare con gli uomini, che spesso sono basici nei pensieri e nelle azioni. L’autrice si rende portavoce di una saggezza femminile, basata su dati statistici, su come vanno di solito le cose, su quelle generalizzazioni che poi sono la verità. La voce narrante sa bene di essere una voce saggia, ma, per carattere, non ha tempo da perdere a filosofeggiare e quindi la saggezza la butta lì con due parole, lapidaria, della serie “è così, venitemi a dire il contrario”. Eudora possiede la verità e la mostra senza possibilità di appello. Dietro quelle verità che enuncia in modo freddo e lapidario, ci sta la sofferenza e il dolore di migliaia di persone, ma lei non ha voglia e tempo di soffermarsi. Ha troppa natura da guardare, troppa rugiada da farsi cadere addosso, troppi fatti da tenere a mente.

E sembrò mettersi tranquilla. Come una gattina bianca in una cesta, che ti viene il dubbio se in realtà non è pronta a dare una zampata e un graffio se uno si avvicina troppo.

Le figure femminili sono ambivalenti agli occhi degli abitanti di Morgana. Snowdie, Virgie, Miss Eckhart e Easter: sono da un lato oggetto di commiserazione dall’altro ammirate e invidiate per la loro personalità, perché sono determinate, indipendenti e al di sopra del mormorare della gente. Le altre donne le commiserano ma forse, in fondo, vorrebbero essere come loro.

“E quando smise di prendere lezione, Virgie perse il tocco… o così dicevano tutti. Forse nessuno voleva che Virgie Rainey diventasse qualcuno a Morgana, proprio come non lo avevano voluto per Miss Eckhart, e le due restavano accomunate dal fatto che la gente diceva così”.

Insomma è chiara e diretta la Welty quando vuole esprimere le personalità anche sdegnosamente, ma diventa difficoltosa quando si immerge nelle sue vorticose immagini pindariche. È una scrittrice depistatrice, una specie di Pollicino sadico che continua a mandare fuori strada. Come succede già nel primo racconto, Il saggio di giugno, dove chiaramente appare in questa veste quando Loch, spiando dalla finestra e poi dal ramo dell’albero, crede che Miss Eckhart sia la madre del marinaio e crede che Mr King sia Mr Voight. Lo crede Loch e lo fa credere anche a te finché a un certo punto la Welty scopre le carte, e lo fa con delicatezza dopo avertelo comunque fatto capire. È come se ti dicesse: te l’avevo fatta, ma alla fine ci eri arrivata, vero? Scrivendo sembra si stia ispirando alla luna che quando sorge di giorno stenti a notarla invece di notte, quando tutto è spento, è così inevitabile guardarla.

Il lettore, come Morgana (a proposito di usare i personaggi – e Morgana è un personaggio – per dire cose sull’umanità in generale), abita il paese spiando la gente per stupire il prossimo. Mette insieme i pezzi per appropriarsi di Morgana e quindi dell’umanità che rappresenta. Nell’attesa di qualcosa che non sai neanche più cosa e di cui alla fine, comunque, non ti sorprendi più. Forse la morte, o forse MacLain che, tornato, resta (fermandosi dalla parte sbagliata).

Per quanto sia non immediato stare dietro a Eudora, le sue immagini sono da mozzare il fiato. Vederle è stato difficile, eppure esaltante. È un po’ come imparare a leggere di nuovo da zero, riscoprire la fatica di mettere le lettere una dietro l’altra, di incastrare le sillabe, di comporre le parole e di assegnare loro significato. In sottofondo a ogni storia ci sono le chiacchiere di paese, il cicaleccio che rincorre mentre fai la spesa o che si confonde tra le strade. E anche quando era solo un personaggio a parlare, nella sua voce rimbomba l’eco di tutte le altre.

Come se la lezione fosse che non c’è da aspettarsi un riscatto, nelle Morgana di tutto il mondo e di tutti i tempi: piuttosto una consapevolezza di qualcosa che occorre salvare anche in situazioni così “chiuse”.

Per chi volesse leggerla, suggeriamo anche una possibile colonna sonora di uno dei primi bluesman, del Sud degli Stati Uniti, Delta Mississippi: Robert Johnson; questo blues neonato riproduce quell’atmosfera di natura rigogliosa, di calore, di cicale, di strade polverose, di accadimenti vari nei piccoli paesi. Plauso generale per i due personaggi perfetti, Miss Eckart e Virgie Rainey: “due creature terribilmente brade, perse a vagare sulla faccia della terra. E come loro ce n’erano altri – esseri umani a vagare, perduti, come bestie”. In realtà, i veri perduti sono tutti loro: a consumare giornate tutte uguali, come ritmate da un metronomo. Come dentro l’occhio della fotografa Welty, che, soprattutto per il bianco e nero, cerca il contrasto, come se descrivesse qualcosa negando qualcos’altro: “…con gli spigoli appianati e senza più il naso, come se lo avessero leccato le capre.” Questo è il suo sud, mondo contadino e ancestrale: uomo e natura a stretto contatto.

“Lui la avvolgeva d’amore estivo”.

Molte frasi risuonano nella testa più volte, come la luce calda e accecante dell’estate, il suo calore e un amore intenso che contempla immagini meravigliose e poetiche.

La Welty si muove con un passo allenato e impavido, camminarle accanto significa essere strattonati, ma anche incantati dalle meraviglie che il faro della sua scrittura rischiara. L’accoglienza a Morgana è esaltante, civettuola, stuzzicante come il chiacchiericcio del paese, delle case, delle vite degli abitanti. Perché la vita a Morgana è densa ed energica, e non c’è tempo da perdere, non c’è tempo di perdersi in astratte descrizioni psicologiche dei personaggi, quello che sono è interamente racchiuso in ciò che fanno. L’azione conta più della parola, anche, e soprattutto quando, l’azione è un’assenza. Così la Welty si fa da parte e li lascia liberi di muoversi su un palcoscenico, quello di Morgana, che ha un ruolo attivo, ha un respiro, e si appropria delle vite che la attraversano.

“Così Morgana riusciva ad appropriarsi di tutti, e finalmente chiunque era il tale o il talaltro”.

C’è una profonda inquietudine che attraversa i personaggi, quasi la condanna di non poter essere altro che ciò che sono. Lo dice anche Virgie sul finale, che pensa che tutti gli opposti siano uguali, “ma fra tutti, speranza e disperazione erano le parenti più strette”. Le descrizioni aprono degli squarci di luce nella storia a tratti limacciosa, la scelta delle parole è sempre imprevedibile e inusuale, aspetto che la rende allo stesso tempo sorprendente e logorante. Riconosci la tensione raffinata e intrigante del cinema di Hitchcock ma anche la normalità straniante di David Lynch. I suoni, i colori, gli odori di un Sud con una circolarità fluida suggerisce come tutto nella vita sia fragile e in trasformazione. Sono i misteri che rivelano le storie. Come una crepa in cui infilarsi, accarezzando le parole, per ritrovare alla fine un messaggio dorato.

“Il sogno ha preso il posto del sognatore.”