La memoria è un obbligo, non è una scelta. Rievocare è un atto politico volontario imprescindibile dall’essere cittadino, contribuente, elettore. Dall’essere UOMO. Non si possono costruire certezze e saperi e convinzioni senza un passato al quale ispirarci. Allo stesso modo in cui non si possono edificare case e palazzi e grattacieli senza fondamenta solide sulle quali elevarli. Siamo quello che mangiamo, chiosava Feuerbach. E siamo pure quello che leggiamo.

Così ci alziamo noi.  Mattone dopo mattone. Libro dopo libro.

Così ci astraiamo dallo status di meri esecutori di errori perpetui in moti imperdonabili.

Così formiamo una coscienza critica: studiando, imparando, introiettando, criticando, evitando. Segnando percorsi personali nei quali poterci muovere sentendoci a nostro agio.

Come fa il lettore di Una storia tedesca scritto da Roger Salloch edito da Miraggi, nelle vie calcate al fianco del pittore e maestro di arte Reinhardt Korber. “Seguirlo per le strade di Berlino nella primavera del 1935, nella penombra dei caffè, sotto i tigli di Unter den Linden, nella luce trasparente di una primavera radiosamente inutile”. È la storia di un artista, un romanzo della resistenza senza eroe. Un libro inusuale che apre la collana Tamizdat, termine con cui nell’Europa del Blocco Sovietico venivano definite tutte quelle pubblicazioni clandestine che sfidavano la censura.

Storie censurate, altre ritrovate. Come accade ai personaggi tratteggiati da Marco Lupo nel suo splendido esordio Hamburg, per Il Saggiatore, incassando il premio Campiello Opera Prima. Un gruppo di lettura si incontra tutti i lunedì per parlare della storia che ognuno dei partecipanti sta scrivendo. Una sera uno di loro porta con sé frammenti di libri ritrovati, pagine che sono sopravvissute ad altre strappate, come la memoria quando non vuole ricordare. Comincia così una lettura condivisa, un interrogarsi collettivo su chi sia l’autore e cosa manchi a quelle storie. La letteratura delle macerie inizia qui. Un libro che osserva la guerra da differenti angolazioni: quello dell’ufficiale britannico che libera le sue bombe da duemila metri di quota; quello di Hans Erich Nossack, scrittore tedesco che nel 1943 con sua moglie scappa da Amburgo per sfuggire la devastazione; quello ancora che entra nelle stanze del potere dove vengono pianificate a tavolino le prossime mosse sullo scacchiere bellico. Una narrazione straordinaria concepita in una prosa senza sbavature.

Descrivendo un’epoca della mia vita cerco di definire il senso di un’epoca della storia europea e, così facendo, di dimostrare il valore della riflessione come guida dell’esistenza umana. Una tesi che ha gran bisogno di essere sostenuta.” Così dice Simkha Opatchevsky per mezzo della voce di suo figlio Pierre Pachet, che raccoglie la sfida ambiziosa di raccontare la vita di un altro uomo, suo padre appunto, come se fosse la propria. In Autobiografia di mio padre, romanzo edito da L’Orma Editore nella collana Kreuzville Adelph, Pachet narra l’esistenza di un esule ebreo all’inizio del novecento. Quella che Pachet ci consegna è la figura di un fuggitivo che, dai pogrom di Kishinev ai rastrellamenti nella Parigi assediata, vive i drammi della storia del suo tempo senza compiere atti valorosi o gesta memorabili, ma con l’occhio di chi, patendo l’angoscia dell’occupazione, il rischio costante di essere scoperto, riesce a osservare la realtà intuendone tutte le sue interpretazioni, leggendone sapientemente ogni sfumatura.

Nessun atto eroico neanche per il protagonista de La verità che ricordavo di Livio Milanesio, pubblicato dalla casa editrice Codice. Dino, protagonista della storia e padre dell’autore, sperimenta gli anni più bui dell’Europa e tra il 1943 e il 1945 guarda il mondo da una finestra che non è azzardato definire “dorata”, lavorando, dopo la deportazione, come sguattero al circolo degli ufficiali tedeschi a Königsbrück, mentre suo fratello Michele come operaio alla fabbrica di Chemnitz. Al ricongiungimento con suo fratello la prova della condizione diversa nella quale Dino ha trascorso quei mesi, sperimentando l’amore, desiderando di indossare la divisa da cameriere. Antieroe per eccellenza, sceglie di non vedere, di non sapere, di non capire quello che accade oltre alla collina, il suo perimetro di salvezza.

Di verità si parla anche nel romanzo di Antonio Luna per Robin Edizioni intitolato Le tre verità. Immaginato in tre momenti storici, in tre diverse città, Berlino 1934, Bonn 1968 e Basilea 2002, la storia prende avvio dal sobborgo berlinese di Köpenick con il ritrovamento dei corpi del regista cinematografico, Albrecht Krakauer, e del suo psichiatra, Bernhard Morden. Le ragioni delle morti restano poco chiare, il governo chiude rapidamente il caso. Concepito con la forza febbrile della ricerca, questo libro si pone di risolvere il mistero, riemerso più di mezzo secolo dopo, e districare le tre verità che scaturiscono dal male assoluto, alle quali Luna dà il nome di violenza, inganno, passione.

Una passione molto diversa è invece quella che ha spinto l’eroe Bartali a pedalare, pedalare e poi, pedalare ancora. Gino Bartali è stato dichiarato «Giusto tra le nazioni» dallo Yad Vashem, il memoriale ufficiale israeliano delle vittime dell’Olocausto, per aver salvato centinaia di ebrei durante la Seconda Guerra mondiale. La strada del coraggio scritto da Aili e Andres McConnon, per la casa editrice 66thand2nd. Quando nel 1940 l’Italia di Mussolini entra in guerra al fianco della Germania, un giovanissimo Bartali aderisce come staffetta alla rete clandestina organizzata dall’arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa. In segreto, il campione, che dal ’39 aveva visto sfumare anche il Tour De France boicottato dal regime, percorre centinaia di chilometri tra l’Umbria e la Toscana, sfidando i posti di blocco con centinaia di documenti contraffatti nascosti nel telaio della bici, e aiutando così intere famiglie di ebrei a sfuggire alla persecuzione nazista. Un eroe silenzioso, che rischiando la sua stessa vita, offre la sua straordinaria capacità sportiva mettendola al servizio della società.

Bert e il Mago di Fabrizio Panasini invece ripercorre la memoria collettiva attraverso il lavoro di due grandi della letteratura: Bertolt Brecht e Thomas Mann. In seguito all’incendio del Reichstag, avvenuto il 27 febbraio 1933, Bertolt Brecht lascia Berlino e la Germania perché inserito nell’elenco degli artisti non graditi al regime a causa delle sue simpatie comuniste. Thomas Mann qualche settimana prima, aveva dovuto fare lo stesso dopo che una conferenza su Wagner a Monaco di Baviera aveva scatenato le ire dei nazionalisti hitleriani. Due intellettuali molto diversi, per stile e per temi accomunati dalla sorte che li porta a scappare. Abbandonare. Lo stile brillante di questo romanzo vibra all’interno di una puntuale ricostruzione dei fatti e dello scenario entro il quale si muovono due figure universalmente riconosciute nella letteratura mondiale, che grazie a questo lavoro, edito da Nutrimenti, vedono emergere i tratti meno noti delle loro vite private, la genesi della loro opera e la loro formazione poetica.

Città che vengono abbandonate, città che vengono ridisegnate. Rinominate dopo la follia nazista. Come accade a Königsberg ribattezzata Kaliningrad per diventare sovietica dopo che 1200 uomini dell’Armata Rossa caddero nei tre giorni di assedio nell’aprile del 1945 per strapparla ai tedeschi. La slavista Valentina Parisi parte da Kaliningrad con l’obiettivo di vedere con suoi occhi il posto dove suo nonno fu tenuto prigioniero durante la Seconda Guerra Mondiale, il lager Stalag 1A di Stablack. Una mappa per Kaliningrad. La città bifronte uscito con la casa editrice Exòrma, riporta la storia collettiva attraverso la storia di un luogo, nei suoi sampietrini, nella sua toponomastica, nel suo cambiare nome senza modificarne l’identità di fondo. Kaliningrad è stata distrutta ma poi è risorta. Nella sua stratificazione, una lettura molto dettagliata per chi ama ripercorrere le grandi vicende storiche attraverso i luoghi.

Finiamo questa incursione con la musica, che pure quando tutto sembra essere dominato da insensatezza e crudeltà riesce sempre a trovare una semantica nelle sue note. Si tratta de L’imperatore di Atlantide scritto dal regista stresiano Enrico Pastore edito sempre da Miraggi, opera che restituisce una tra le tante storie meno note dell’Europa nazista. Terezín , luogo creato ad hoc dal partito nazista per mascherare le nefandezze compiute in altri lager e apparire, agli occhi delle delegazioni di Danimarca e Svezia e alle visite della Croce Rossa Internazionale, come città-modello dove gli ebrei vivessero in ottime condizioni. Una narrazione dell’assurdità, resa nota dalle testimonianze e dal capolavoro musicale scritto da Viktor Ullmann e Petr Kien, prigionieri a Terezín, città ghetto, dove tutto era “terribilmente” meraviglioso. Niente di più di un teatro dell’assurdo ante-litteram, con la regia di un follemente lucido Hitler. Un libro ben curato che ci regala il libretto dell’opera in appendice. Una melodia per riscattare l’ignominia, il no-sense, l’involuzione nella quale siamo piombati alla fine dello scorso millennio.

La memoria va recuperata dicevamo. Va ripercorsa giorno dopo giorno. Per evitare che l’orrore si ripeta. Per fare in modo che le cose vadano bene

Come oggi, che siamo senza guerre, senza atrocità e deportazioni, senza razzismo e discriminazione, senza campi detentivi ed esseri privati di libertà e sicurezza. Di dignità. Come oggi che va tutto bene. Tutto, come a Terezín, straordinariamente bene.

Angela Vecchione