Il famoso talent show culinario è tornato in tv e alla sua ottava edizione fa ancora parlare di sé. Ma la biodiversità nello storytelling alimentare esiste ed è meravigliosa.

Lo so, non affermo nulla di nuovo quando sottolineo quanto il cibo sia diventato protagonista nel nostro quotidiano. Televisione e social media ne hanno amplificato il fascino a dismisura. Eppure, come quando a tavola si mangia e si conversa di piatti preferiti in un gioco di specchi fra cibo reale e cibo immaginato, non siamo ancora sazi. Il food porn continua, ci abbuffiamo di immagini Instagram, ricette online, programmi tv. Per fortuna, però, non c’è solo il modello Masterchef. Non mi si fraintenda: è un format di successo e intrattenimento, penso che abbia avuto anche il merito di regalare rinnovato lustro a una professione che un tempo non era considerata così creativa. Ma quel mood competitivo, spettacolarizzato e chiassoso l’ho sempre trovato un po’ fuori dalle righe, poco rispettoso della dimensione rituale e sociale che personalmente attribuisco al cibo. Così al nuovo ritorno di Masterchef in tv mi sono chiesta se, a fianco a tutto questo glamour alimentare, il cibo oggi venga raccontato anche in modi differenti. E la risposta è sì, li ho trovati e ne racconto tre.

Anya von Bremzen
L’arte della cucina sovietica – Una storia di cibo e nostalgia
Ed. orig. 2013, trad. dall’inglese di Duccio Sacchi, pp. 380, € 22
Einaudi, Torino 2014

“Pieno di humour nero e nostalgia, L’arte della cucina sovietica si legge come un grande romanzo russo. È un libro che spalanca un intero universo, insegnando i tanti significati profondi del cibo: culturali, politici, sociali, storici, personali”. Cito le parole di Ferran Adrià, chef di fama internazionale, per introdurre questo libro, il primo titolo di Anya von Bremzen a essere stato pubblicato in Europa (oltre che in Italia, è uscito anche in Germania e in Olanda). Anya è nata a Mosca nel 1963 ed è emigrata negli Stati Uniti con la madre nel 1974, come profuga ebrea. Qui si è affermata come autrice di libri di cucina, con i quali ha vinto per tre volte il James Beard Award. Io l’ho conosciuta all’ultimo Festival de L’Internazionale a Ferrara, lo scorso ottobre, dove ha presentato il suo libro a una tavola rotonda proprio centrata sulla scrittura intorno al cibo. In questo volume, Anya racconta dieci decenni di storia della sua famiglia, con un occhio attento anche allo sfondo su cui si srotolano, ovvero dieci decenni di Urss. Il tutto legato dalle ricette dei piatti di famiglia: dalla kulebjaka zarista al borsc ucraino, dal palovuzbeco allo spezzatino georgiano, dalla vobla – quel pesce che “adoriamo per tutto il tormento che ci dà mangiarlo” – alla focaccia di granturco moldava. Un trattato di storia dell’Unione Sovietica alternativo, stilato con humour, affetto e anche un tocco pratico: le ricette infatti sono tutte raccolte al fondo. Perché mi è piaciuto? Perché è autentico, attraverso il cibo studia, racconta, ironizza, condivide piatti, ricette, aneddoti di famiglia, la storia di un Paese che non c’è più.

Gnambox.com
Progetto editoriale di Stefano Paleari e Riccardo Casiraghi

Ormai sono diventati un modello di riferimento, ma Stefano e Riccardo hanno ideato il loro Gnambox in tempi non sospetti, quando ancora i food blogger erano dei pionieri. Partner sul lavoro come nella vita, i due si sono dimostrati interessanti fin dall’inizio grazie alla capacità di raccontare il loro mondo tramite il cibo. Non solo con ricette, ma anche attraverso la narrazione del loro quotidiano, costituito di piatti e luoghi preferiti, da cui emerge tutto il loro sistema valoriale: salute, benessere, amore per il bello, condivisione e inclusione. A oggi gestiscono il blog, premiato proprio recentemente dal Corriere della Sera, gli account Fb e IG, una collana di cityguide, oltre a vantare un libro di ricette pubblicato con Mondadori (In food we trust). La loro linea editoriale, che oggi può apparire vista e scontata, in realtà è molto ben studiata e soprattutto ha il merito di aver fatto da apripista a un certo storytelling in ambito food. Come affermano sul loro About, “Gnambox è una rivoluzione che parte da una cucina di Milano e vuole conquistare nuovi confini”, anche e soprattutto in senso metaforico.

Midnight Diner: Tokyo Stories
Serie Tv

E arriviamo a quella che considero la vera chicca. Midnight Diner: Tokyo stories è una serie tv disponibile su Netflix realizzata sulla base del manga Shinya Shokudō di Yarō Abe. Diventata un vero cult in Oriente – dal manga sono nati la serie tv in più stagioni e due film – il serial nasce giapponese, ma ne sono stati realizzati anche degli adattamenti coreani e cinesi. La ragione di un successo così virale sta in due elementi: la semplicità del sistema narrativo e il legame con il cibo, generatore di empatia a tutte le latitudini. La trama è molto semplice: un ristoratore apre la sua attività da mezzanotte per tutta la notte e accoglie quegli avventori che per un motivo o per l’altro non hanno poi così tanta fretta di rintanarsi a casa. Come il ristoratore, anche il pubblico ascolta le storie che si avvicendano davanti al bancone insieme alla comanda, storie di vita quotidiana, gioie e drammi personali, che non hanno niente di eccezionale o avventuroso. Proprio per la loro semplicità scaldano il cuore, come una buona pietanza calda preparata sul momento, ricordandoci il valore di sentimenti e relazioni, temi che toccano particolarmente i giapponesi, così rigorosi e chiusi. Se non si è usi al linguaggio cinematografico nipponico, forse possono risultare poco appetibili il ritmo lento e la vena humour surreale che caratterizza le puntate, ma sono talmente brevi (solo una ventina di minuti) che una possibilità se la merita sicuramente anche da parte dello spettatore più irrequieto. Midnight Diner: Tokyo stories è davvero una finestra sulla cultura giapponese, che parte dal pretesto semplice del cibo per finire in verticale su aspetti profondi della vita. E poi c’è anche il lieto fine, che di questi tempi non fa male.

Daniela Giambrone