Scende giù per Toledo, Rosalinda Sprint, e si intuisce fin dall’inizio che questo movimento discensionale non è puramente descrittivo, ma sottende un’arguzia metaforica, un’ambiguità calcolata densa di ironia amara e pungente (tratto stilistico molto marcato nella narrativa dello scrittore partenopeo).
Via Toledo è come un fiume maestro che scorre in pendenza verso la marina, la “litorania” napoletana, facendosi innervare da quei ripidi affluenti che sono le discese del quartiere plebeo di Montecalvario. Rosalinda Sprint si fa trasportare da questa corrente tutte le sere: fuori dal suo disperato tugurio verso la vita, la notte popolata di avventure, forse l’amore. Ma quel discendere è anche uno sprofondare, come ci sarà rivelato a poco a poco – verso un gorgo di solitudine e disincanto.
Solo nel secondo capitolo scopriamo che Rosalinda è un “femminiello”: un transgender, come usa dire oggi. Siamo negli anni ’70, non più nella Napoli arcaica di Petronio, né in quella visionaria e sospesa di Malaparte. Se si escludono le incursioni pioneristiche nelle notti romane di Giò Stajano, o la verve satirica della “Myra Breckinridge” di Vidal, Rosalinda Sprint è forse il primo transessuale della storia letteraria moderna a rubare la scena di un edificio narrativo nella sua interezza, con un effetto-pedinamento che ci tiene incollati alle sue vicende passo dopo passo, dal primo all’ultimo capitolo.
Ed è di un realismo disarmante, che molti hanno scambiato a torto per barocco, grottesco, iperrealista. È, semplicemente, la realtà delle cose descritta dal punto di vista di un femminiello napoletano, di un reietto sociale in cerca di riscatto che si muove in una società a sua volta irrisolta e ricca di contrasti, e che porta cucito sulla pelle lo stigma di una triplice diversità: è una donna incastrata nel corpo di un uomo (che si sforza di cancellare con ogni espediente); è povera e si prostituisce; cerca l’amore in modo disperato. Quest’ultima caratteristica, in particolare (il motore autentico della storia), la rende diversa tra i diversi mettendola in una posizione di aperta conflittualità con le sue stesse “colleghe” di battuage, più anziane e inasprite dall’esperienza, che recano i variopinti nomi di Maria Callas, Rossicago, Camomilla Schultz.
L’unica mentore riconosciuta è la matura e altezzosa Marlene Dietrich: una che ce l’ha fatta, a modo suo, spacciando immaginarie ascendenze aristocratiche e monetizzando le virtù plastiche di un culo da leggenda negli anfratti più trasgressivi della Napoli bene.
Dati questi ingredienti, sarebbe stato facile virare in modo sconsiderato verso un registro uniformemente patetico, o monocordemente comico-grottesco. Invece, la bellezza (e la sorpresa) di questo romanzo stanno, forse, proprio nel suo impasto timbrico composito. Che si esalta in alcune scene memorabili, come quella dell’iniziazione del cugino “di primo pelo” della protagonista, consumata a spregio sul letto di morte del padre-orco, che l’aveva cacciata di casa a revolverate al primo manifestarsi della sua omosessualità. O come la scena della “mmerda”, di una virulenza rabelaisiana che ha fatto storcere il naso a più di un lettore, ma assolutamente preziosa nella sua cesellatura stilistica.
Fosse stato concepito in ambiente anglosassone, un romanzo come questo di Giuseppe Patroni Griffi sarebbe ancora oggi un cult per generazioni di lettori e di attivisti lgbt. Invece è annoverato, più che altro, come incunabolo di quel filone teatrale di successo, tutto interno allo spazio letterario napoletano, che attraversa le produzioni di Ruccello, De Simone, Enzo Moscato, lo stesso Patroni Griffi. Troppo poco, forse, per la forza d’urto di un personaggio che non trovo azzardato paragonare ad una tragicomica Bovary dei bassifondi contemporanei.
Emiliano D’Angelo
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