Numero 13 | Ottobre 1998

Nei romanzi dello scrittore somalo Nuruddin Farah (Baidoa 1945) si incontra un universo complesso ed enigmatico, permeato dalla pazzia devastatrice della dittatura e della guerra civile, ma intriso anche dell’audace e profetica follia di chi usa la parola come arma, mezzo di denuncia e di rottura e al contempo atto d’amore che disintegra barriere di silenzio e lontananze. Tutta l’opera di Farah, che è il primo romanziere nella storia del suo paese, nasce infatti da una fiducia profonda nel potere della parola e dalla condivisione ideale della misteriosa pazzia di chi, come alcuni dei suoi personaggi più riusciti, sa esprimere ad alta voce e con lucidità penetrante di un Amleto o di un fool scespiriano i pensieri soffocati di molti suoi connazionali. Perché Farah, pur essendo costretto a vivere l’esistenza nomade dell’esule, si è assunto il compito tutt’altro che facile, di dar voce al suo paese, raccontando e filtrando attraverso la lente dell’esilio il dissenso somalo nel periodo della dittatura di Siad Barre, e continuando anche nelle opere più recenti a far parlare coloro che, come le donne e i bambini, sono vissuti e vivono nel silenzio.

Al centro della sua produzione letteraria si colloca una trilogia originariamente pubblicata in inglese, intitolata «Variazioni sul tema di una dittatura africana» (Latte agrodolce, 1979; Sardine, 1981; Chiuditi Sesamo, 1983: tutti editi in Italia da Ed. Lavoro), che ha come filo conduttore la vita della Somalia durante la dittatura di Siad Barre e le vicende legate ad alcuni (fallimentari) tentativi di opposizione al regime compiuti da un commando somalo di dissidenti clandestini. Pur intrecciando personaggi, temi e motivi ricorrenti, le parti costituenti la trilogia hanno ognuna una propria fisionomia e, dopo la pubblicazione, hanno incontrato ciascuna una sorte diversa. Se i brani più polemici di Latte agrodolce sono stati subito tradotti in somalo e, registrati su cassette, fatti circolare clandestinamente in Somalia dai camionisti, e se Sardine, con il suo universo femminile, resta il romanzo più venduto e popolare di Farah, Chiuditi Sesamo è riconosciuto come il romanzo più maturo della trilogia, quello che esprime al meglio le doti del suo autore e che più intensamente degli altri rievoca il periodo coloniale italiano dal punto di vista dell’altro, di chi la colonizzazione l’ha subita, fornendo così anche al lettore italiano una prospettiva nuova su un’avventura africana che non possiamo non ricordare con una certa vergogna.

I tre romanzi sono comunque legati l’uno all’altro e alla restante produzione di Farah, da una personalissima ricerca espressiva e dalla consapevolezza artistica e politica di un somalo che, per la sua condizione di esule, è venuto a contatto con le culture più diverse e ha fatto propria una pluralità di discorsi che si ritrovano sedimentati, trasformati, «sincretizzati» nella sua scrittura. L’intertestualità è una caratteristica costitutiva della sua opera, che riesce tuttavia a fondere modelli orientali e occidentali in romanzi essenzialmente africani, e non solo per ambientazione. Questa «africanità», però, non è più costruita attraverso il recupero della storia passata e delle tradizioni pre-coloniali, come accade per esempio nei primi romanzi del nigeriano Chinua Achebe, né scaturisce dall’invenzione di un linguaggio letterario ibrido, impastato d’inglese e lingue autoctone, atto a esprimere, come nel caso di Amos Tutuola, il fantastico locale. È piuttosto un’Africa post-coloniale quella che si manifesta nei suoi romanzi, una realtà in cui il plurilinguismo e l’apertura ad altre culture sono ormai d’obbligo per la necessità di comunicare con il mondo esterno, e dove la tradizione orale sembra essere mantenuta solo attraverso le comunicazioni radiofoniche, il telefono e i nastri del registratore, o relegata, come in occidente, al rito del nonno che racconta le storie ai nipoti. È un’ Africa governata dal disordine violento dei regimi dittatoriali, oltre che dalla sua stessa incapacità di trovare nell’unione fra clan ed etnie la forza per una svolta democratica; ed è un mondo in cui le vecchie generazioni difficilmente si riconoscono e dove i giovani, spesso formati in scuole straniere, vivono divisi e in contraddizione. In questo senso la Somalia di Farah è rappresentativa della maggioranza degli odierni stati africani, e i suoi romanzi, costruiti su una pluralità linguistica, semantica e stilistica quasi postmoderna, ben ne esprimono la natura e la contemporaneità.

Annalisa Oboe

 

«Parlare di quello di cui nessun altro parla e rimanere a tempo stesso sani di mente è un compito assai difficile. Sono stato sull’orlo della pazzia per gli ultimi quarant’anni: la pazzia di cui parlo è in se stessa un’affermazione politica.»

Biografia del 2018

Nurrudin Farah è nato a Baidoa, in Somalia, da una famiglia musulmana che lo avviò a diventare prete islamico, permettendogli di approfondire lo studio dell’arabo. Rivelatosi inadatto alla carriera religiosa, Farah proseguì gli studi prima a Mogadiscio poi in India ed in Inghilterra. Esule dal 1976 per le forti critiche al regime di Siad Barre, ha risieduto a lungo in Italia ed ha insegnato in varie Università africane, statunitensi ed europee. Farah è uno dei massimi scrittori africani di lingua inglese e gode di una prestigiosa fama internazionale. Ha esordito nel 1970 con il romanzo From a Crooked Rib. In Italia è stata tradotta da Edizioni Lavoro la sua trilogia Variazioni sul tema di una dittatura africana, in cui Farah intreccia diversi stili narrativi – il giallo, la favola, il dramma psicologico, il romanzo storico – senza trascurare l’eredità della tradizione narrativa araba.
Fonte: ibs.it