In questo presente veloce e confuso, tanto da parere immobile, è bello trovare qualcosa che ci permetta di sfuggire.

Circondati da informazioni troppo rapide e convulse, informazioni che il nostro cervello fatica ormai ad elaborare per la quantità inaudita di stimoli che riceve, pressati dall’inutile di ciò che è dato ma non diventa mai conoscenza rimanendo sempre superficiale, trovare un libro come questo scritto da Ludvík Vaculík è una magia buona. Di quelle che ci fanno bene anche se ci sentiamo soli, in questi attimi di paura.
Non sono certo in grado di giudicare la traduzione, ma mi permetto di dire che Con i cavalli in Moravia Viaggio al Praded nella sua versione in lingua italiana (Editrice Santi Quaranta 2004) merita di essere riscoperto e letto da tantissimi lettori che ancora non hanno avuto il piacere di andare con i cavalli tra le sue pagine. E non perché dobbiamo farci tanti discorsi sopra, come magari è accaduto per altre opere di Vaculik legate ad un periodo storico che per fortuna ci ha lasciato, ma solo per godersi la lettura in un attimo di pace e rapimento.

Questo libro ha come titolo originale appunto Viaggio al Praded, ma per una volta condivido la scelta dell’editore di dargli un titolo italiano ancora più evocativo, in perfetto tono con la scrittura e la storia del libro.
Il romanzo si innesca dalla storia della conoscenza di due amici, il narratore e Josef, preside di un istituto di agraria, e ho potuto leggerlo oramai qualche anno fa, ma ogni tanto mi prende ancora la nostalgia e il sentimento del risentire quel rarefatto incedere lento accanto al carro, mentre si parla di niente, si odora e si sente sulla pelle l’aria, l’erba e tutto per una volta si illumina. E allora ne parlo con qualcuno, perché è il tempo buono per parlarne.

I due amici della storia partono lungo strade di campagna e paesaggi quasi dimenticati, con i cavalli, degli studenti della scuola e un carro, prendendosi un tempo per riscoprire quasi il tempo e lo spazio, e forse anche per scoprire cosa li leghi, quale sia il nodo della loro amicizia anche fuori dal quotidiano gioco balordo degli incontri.
Il carro che procede lento diventa così il centro di un mondo da dove Josef e i cavalli si irradiano battendo strade laterali e campi, storie e misure, e ogni viaggiatore osserva e percepisce di nuovo il suo sentire, per ritrovarsi a sera tutti assieme magari attorno ad un fuoco. I due gruppi di cavalieri e carrettieri si alternano di giorno in giorno consumando spazi diversi ma seguendo lo stesso piacevole tempo, guidati dal raggiungimento di una meta, il monte Praded, che sa di mitico tra gli ondulati paesaggi della Moravia.

Pur non essendo un amante dei cavalli in particolare, mentre leggevo la storia rimanevo accanto al gruppo riunito a sera, prigioniero di una magheria, cercando anch’io goffamente di trovare una possibilità di proiettare in improvvisate situazioni e luoghi precari documentari sui cavalli, per racimolare qualche soldo e pagarci il viaggio.

La sensazione predominate in questo libro è che ognuno, compreso chi legge, dopo poco che il viaggio è cominciato, sembra non provare più nulla fino al raggiungimento del solo sentire del levare e del battere degli zoccoli ritmati dei cavalli, un sentire ritrovato che dall’elisione totale ci restituisce sotto una nuova luce il mondo che avevamo perduto, attorno e dentro di noi. Ed è una sensazione lieve, confortante e spiazzante allo stesso tempo, ma che sa di dolce.

Con i cavalli in Moravia è un libro sapienziale, di quella sapienza delle cose minute che abbiamo perso e che fatichiamo a ricordare, è un libro di sensi che riprendono a battere e a sfrigolare sulla pelle, di figure magiche e quasi stregonesche. È un libro di frasi e considerazione che si accavallano e filosofeggiano nel reale.
Ci sono gli uomini e le donne che si guardano. Ci sono i libri neri del medioevo e le loro torture che punteggiano discorsi di terra e umido, c’è una donna dalla malia sfocata ma potente che compare quasi dal nulla nel romanzo e tesse un filo con uno dei protagonisti che rinfocola una storia diversa degli avvenimenti e delle mete del romanzo. C’è che nel procedere del viaggio tutto diventa qualcosa di non perfettamente normale, riportandoci sensazioni che amiamo e ameremo ancora, desideri che ci eravamo nascosti e legami semplici che, siano con cose, terra o persone, vanno ancora narrati per renderli vivi. Come gli amici che non ci sono più o le donne che abbiamo amato e perduto sulla strada.

Io non so cosa ci sia in questo libro (a parte qualcosa di sicuramente intimo che Vaculík ha voluto con noi condividere come narra la storia della pubblicazione del libro in patria nel 2001), ma c’è per me quella sensazione di immergersi che si può trovare solo  nei grandi libri, nei grandi racconti, che spesso nascono dalle cose più semplici e naturali che tentiamo di riabbracciare perché le sentiamo perdute mentre si allontano da noi. Certo Vaculík non ha la capacità di scrittura di Proust (e chi ce l’ha mai avuta?), ma la sua scrittura è in qualche modo contemporaneamente lineare ed astrusa, potente e sprigionante visioni che ci cullano per pagine delicate che si oppongono alle asprezze degli animi e della terra.

Amo molto questo libro e vorrei rileggerlo a volte come se fosse la prima volta.  Forse non tutti possono apprezzarlo, non è nulla di straordinario in fondo questa storia lenta e sbilenca di amici e cavalli che si perdono, potreste pensare, ma non pensate, e cercate di sentire vivo tutto lo straordinario che la vita ci può concedere.
Arrivare sulla cima del monte, il monte che si chiama Bisnonno (questo il significato di Praded), il monte che veglia sul popolo, sulla gente, sarà così importante? O l’importante sarà esserci, forse, sulla strada?
L’importante, dico io, è perdersi cercando di ritrovarsi, e questo libro è un buon modo per ritrovarsi, più ricchi, più completi, migliori di quando un giorno lontano che non ricordiamo più siamo partiti anche noi per il nostro viaggio in questa vita.

Simone Battig