Autobiografia, diario, confessione, testamento letterario: Eshkol Nevo rivela attraverso un’autointervista, costruita sulle domande poste dai lettori allo scrittore protagonista del romanzo, attraverso un sito. Quest’intervista verità, in cui l’autore, per mezzo del suo alter ego letterario, si mette a nudo, costituisce il pretesto per scavare nei segreti, nelle paure, vizi, manie, idiosincrasie di uno scrittore di successo. Ne viene fuori un racconto intenso, ricco di pathos, talmente intimo da diventare universale. Perché i peccati, le debolezze, le speranze e i timori dell’autore sono anche quelli di noi lettori. Seguendo le sue riflessioni, Nevo ci consente di intraprendere un viaggio nel tempo e nello spazio, che ci porta fino in Sudamerica, accanto al protagonista e ai suoi amici da giovani e poi di nuovo con lo scrittore adulto, già affermato, ma invecchiato, appesantito, alla ricerca di se stesso, in quella Colombia dove avrà principio la fine (forse ogni fine), dove si crea una faglia dallo scontro tra realtà e fantasia, che inghiotte entrambe, trasformando una fantasia reale in una falsa verità, con cui ci si deve scontrare e dentro la quale si finisce scomodamente a vivere. L’autore, però, ci porta anche più lontano, oltre la linea verde, negli insediamenti israeliani, nei territori occupati (se visti dal punto di vista dei Palestinesi), tra gli ebrei ultraortodossi, ma anche “dall’altra parte”, in mezzo agli arabi, in Iran.

A scandire il tempo de L’ultima intervista, le lezioni di scrittura e, soprattutto, gli incontri coi lettori, che divengono un pretesto per esplorare luoghi, sfatare tabù, accorciare distanze (per lo meno quelle dello spirito) o espanderle a dismisura. Per affrontare temi universali, anche scottanti: si parla d’amore, di morte e d’altre sciocchezze, per dirla con Guccini, dove queste sciocchezze sono guerra, razzismo, malattia, amicizia, dolore, disperazione/speranza, famiglia…

Pur tenendoci a non definirsi un autore “politico”, la questione israelo/palestinese è una presenza ingombrante, e le prese di posizione dell’autore, anche se nascoste tra le pieghe della storia, sono nette e inequivocabili. Mentre parla di sé stesso, come forse tutti gli scrittori israeliani, Nevo non può fare a meno di mettere a nudo le contraddizioni della sua terra, di svelarne, senza acredine, ma con una profonda amarezza, mal celata dall’ironia, le falsità, il razzismo strisciante, i preconcetti, l’incomunicabilità tra opposte visioni. Smaschera e allo stesso tempo coccola le paure del suo popolo. Sempre spinto dalla curiosità e dal rispetto, per gli uomini più che per le idee, cerca punti d’incontro con posizioni anche molto lontane dalle proprie.

La scrittura di Nevo è calda, intensa, avvolgente, non consente al lettore di prendere le distanze, ma lo rende costantemente partecipe di un racconto che si muove tra passato e presente, con protagonisti fissi, inamovibili (l’amico Ari e la moglie Dikla) e personaggi ricorrenti, come ex fidanzate e amici scomparsi, ma anche casuali compagni di viaggi, propri o altrui, che magari appaiono, o riappaiono, per pochi istanti, ma che aleggiano come fantasmi sullo svolgimento della storia.

Due sentimenti prevalgono su tutti: la paura della perdita (che a volte diventa causa della stessa, finendo col rendere inaccessibile la presenza) e la vergogna per la menzogna.

In questo senso, quest’ultima intervista ha un valore catartico: la ricerca della verità a ogni costo, verità personale e assoluta, per espiare la colpa di essere diventato, come scrittore, un mentitore professionista e aver finito col confondere i due piani, vita reale e racconto, tanto da non riuscire più a distinguere il falso dal vero, da pensare alla realtà come a una continua fonte di storie, non riuscendo più a viverla fino in fondo, e da mentire anche a se stesso sui reali motivi di questa incapacità. Portare a termine l’intervista diventa, però, anche un tentativo di ribellarsi a quella distimia di cui il protagonista dichiara di soffrire fin dalle prime pagine e che si traduce in un blocco dello scrittore che va avanti da anni: allora l’unico modo per riprendere a scrivere è rifuggire da se stesso per tuffarsi nuovamente dentro un altro sé e completare quest’intervista diviene una missione di liberazione.  E forse è proprio questo il lascito del libro: la fine (qualsiasi fine) a volte è un sollievo.

Fabio Sarno

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