“There were six. My grandmother said, You understand this story. It means, make something of yourself.” (Grace Paley, How come?)

Invecchiare, scriveva Susan Sontag in un saggio degli anni Settanta, “The Double Standard of Aging” (On women) è un fatto dell’immaginazione, oltre che reale o naturale; “a social judgment than a biological eventuality”. Lo stesso si può dire della maternità, che assieme alla bellezza, la sessualità, la menopausa, ecc. è uno di quegli accadimenti ma anche “standard”, o modelli che su di noi donne hanno preso forme diverse: corsetti e busti, aspettative molto più onerose e limitanti rispetto a quelle che pesano sull’altro sesso. Anche la maternità di cui ci parla la scrittrice di Toronto Sheila Heti (Sellerio, 2019, 2024) è un fatto morale, un lavoro dell’immaginazione, una “crisi” personale ma anche collettiva. Perché quella di Heti è la maternità di una donna della classe medio-alta, quella a cui appartengo anche io, e molte scrittrici. Non è così per tutte le altre, per la giovane in sari con la pancia post-partum ancora visibile, quell’andatura a gambe divaricate per la cicatrice che tira, spaesata alla fermata del bus a spingere il suo neonato, o quell’altra con la sigaretta in bocca, lo sguardo perso davanti, accovacciata sul gradino della porta di casa, come se stesse in un giardino invisibile con una piccola carrozzina accanto. Per loro la maternità resta una realtà molto fisica, a volte più degradante che patetica, la vita vera più che una neurosi. Forse la maternità va investigata proprio lì sulla linea tra le donne liberate e quelle che non hanno ancora piena coscienza delle esperienze che ci riguardano. Quella linea di risonanza e rispondenza, come avrebbe detto Carla Lonzi, dove la femminilità viene rabbiosamente regolamentata.

La maternità, il desiderio di maternità di Sheila Heti è fatto di masse che si muovono, punti di contatto con i propri desideri e sentimenti, sentimenti e colpe sbilanciati, immaginazioni che tengono a distanza la realtà, di carte dell’ i-ching che rispondono a domande che hanno già risposte, un demone che ti mette biblicamente alla prova, una scelta che però è anche un destino… un irrisolto nel mezzo di una sostanza amorfa come la pappa in un bozzolo in cui la narratrice preferisce stare. E lì, nello spazio avvolgente della scrittura, spazio di disintegrazione e riduzione, Heti scompone i suoi pensieri e le sue paure fino alle loro componenti infinitesimali, come un filamento di sangue o di capello al microscopio. Ci sono i suoi sogni, che non sono poi così diversi da quelli di noi altri, e che, come ogni sogno, possono dire tutto o niente. Ci sono le scopate con il fidanzato, Miles, le amiche che hanno fatto figli, rispetto alle quali lei si sente in qualche modo superiore, anche se, come spesso capita, non lo vuole ammettere, ci sono le lacrime, che vengono giù come il sangue del mese. C’è la società americana che è sicuramente sempre un passo avanti nella disumanizzazione della postmodernità, in cui per calmare gli sbalzi d’umore del ciclo mestruale, meglio prendere un innocuo antidepressivo come fa Heti.

Ci sono anche tanti luoghi comuni (perché non c’è solo lo stereotipo dell’idillio della maternità), che quasi mi vien voglia di chiamare stronzate. La più grande che l’umore delle donne sia sovradeterminato dal ciclo, così il libro avanza dalla fase premestruale, all’ovulazione, sempre uguale a se stesso nel meccanismo, per sbalzi umorali, lacrime e sollievi, così fino alla menopausa o premenopausa. In un travisamento e una certa banalizzazione di quell’idea forte della pratica femminista secondo cui il vissuto di una donna (l’aborto, il ciclo, il corpo così poco conosciuto dalla medicina, la quotidianità), quelle esperienze indicibili, coperte da tabù e da vergogna devono essere finalmente dette, nominate. Ci sono frasi fatte: che l’innocenza dei bambini si corrompe crescendo, (piuttosto il fatto che noi adulti, cominciando dai genitori, la corrompiamo, la inquiniamo dovrebbe rendere quell’innocenza ancora più pura). Che “avere un figlio risponde all’impulso di non dare nulla a se stesse” (troppo assoluta ).“Non metteremo al mondo altri aggressori, né altre vittime, e in questo modo col nostro utero faremo qualcosa di buono” (troppo definitivo).

Soprattutto è fastidioso leggere questa grande divisione tra le donne che fanno i figli e quelle che non li fanno perché partoriscono libri. In qualche modo questo libro Maternità che è un diario anche se la critica americana e la stessa autrice lo definisce una novel, è per Heti il bimbo nato o non nato, a seconda di come lo guardiamo. Ma ovviamente questo può valere per una scrittrice, un’artista. Non siamo tutte Simone de Beauvoir o Sheila Heti. In termini generali non vuol dire niente. Le donne che fanno o non fanno figli possono mettere sul piattino della bilancia una professione, la carriera, un lavoro qualsiasi perché con un solo stipendio non si arriva a fine mese oppure no. Per molte donne che decidono di non avere figli le ragioni non saranno un libro per il quale si struggono, con il quale creare un mondo diverso, ma altre, diverse, stratificate. Alla maternità si pensa, sulla maternità ci si arrovella da sempre, più di quanto crediamo. Anche le donne della generazione di mia nonna, quelle che si sono sposate e hanno fatto figli nella povera Italia del dopoguerra, quelle che abortivano con i ferri di calza, non una volta ma incontabili, quelle che non avevano molta scelta, anche loro non erano cieche.

Heti voce-narrante (in questo caso molto più autobiografica degli “io” di altri suoi precedenti romanzi) attraversa i trent’anni “a pensare” se avere o meno figli, “ossia fare quella cosa che alle donne è stato detto che non è necessario fare, anzi, che non devono proprio fare” (come ha dichiarato in una recente intervista su Lucy). Attraversa il decennio senza restare incinta, prendendo la pillola del giorno dopo all’occorrenza, facendosi implantare una spirale per poi togliersela, e nonostante una parte di lei, un’altra lei che sta dentro di lei, desideri, o giochi con il desiderio di diventare madre, e soffra fino alle lacrime, il compagno di allora, Miles, ha già una figlia da un’unione precedente, e non vuole altri figli. Cosa sarebbe successo se Miles avesse spinto un po’? è una domanda che Heiti tende ad evitare “Con Miles non capirò mai cosa voglio, i suoi desideri sono troppo forti”. Perché questa maternità che non è più una forma di segregazione femminile, che fa della donna solo una madre o un elemento anonimo della famiglia, ma si pone come una scelta (in questo caso di non procreare) autonoma e libera, un atto di individuazione e autodeterminazione, continua però a lasciare inalterato lo stesso tassello: la responsabilità dell’uomo che è anche padre, e che continua a restare nel suo spazio senza tempo, a entrare ed uscire, magari chiedendo istruzioni, ma generalmente a sottrarsi a quella scelta di cura, di presenza, di attenzione, che in fondo è la scelta della maternità in senso ampio, per chi sceglie di essere madre, ma anche per chi come Heti sceglie di essere figlia.

Negli ultimi capitoli, la scrittrice ha attraversato il decennio, è all’alba dei quaranta. Si sente che è lei ora, la voce narrante è più aderente a chi scrive. Ci dice che a trentanove anni è vecchia. “Ho tenuto duro contro l’onda che cercava di sommergermi col suo torpore”. Il torpore crea i bambini?  A volte, quasi mai. Anche l’amore crea i bambini, crea un legame con i bambini partoriti o non partoriti. E l’intimità di essere sfuggita al volere della natura è solo un pezzo di vita che non ha niente a che vedere con l’intimità insondabile che ci lega ai nostri figli.

Le ultime pagine sono le più belle. È come se l’ansia abbia fatto i suoi giri (troppi) e si sia esaurita di colpo (ma in realtà questo tipo di ansia tende a fare ritorno, ciclicamente). Qui, dove qualcosa l’ha arrestata, la maternità, nella sua forma negativa, smette di essere una rivendicazione e torna ad essere anche un atto cieco: “atto magico”, grazie al quale “l’Universo è tornato perfetto”, scrive la madre di Heti, che ha dovuto essere la figlia che sua madre Magda, ebrea russa, voleva che fosse e che per questo non è riuscita ad essere una buona madre per Heti”. Perché quel punto dal fondo del tempo, a volte doloroso, a volte leggero, in cui finalmente si intrecciano i destini della nonna materna Magda, di sua madre e della scrittrice stessa, è il punto in cui la maternità di ognuna di noi prende forma, la vogliamo o non la desideriamo. Come dormire nella stanza accanto a quella di sua madre durante tutta l’infanzia e l’adolescenza in una notte porosa, cha va avanti ma anche indietro, in cui i sogni e i desideri si mescolano, e i figli finiscono per sognare i sogni dei genitori e le figlie sono anche madri della propria madre.

Per Heti questo punto è un bubbone, un nodo di dolore, le cui ragioni sono conosciute solo in parte, una sfera di tristezza che è sua, ma anche ereditata da sua madre, e dalla madre della madre. Un dolore che alla figlia tocca lenire. “Credo di averlo saputo fin da piccolissima”. “il mio corpo ha sempre vissuto l’idea dell’avere un figlio come un abominio”.

“È giusto dire che mi sto perdendo qualcosa – ma anche che preferisco perdermelo”.

Silvia Acierno